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07
Feb
11

Outing

PREFAZIONE:
Il portatile è ancora in coma farmacologico ed attente operazioni di chirurgia cibernetica stanno cercando di estrarre più dati possibili dal suo cervelletto di 0 e 1.
Fortunatamente esistono gli amici con i “muletti” nascosti negli armadi e disposti a prestarli a tempo indeterminato.
Questa prefazione è per ringraziare Marilena.
Voi, invece, saprete con chi lamentarvi per questo interminabile e scompostissimo post privo di qualsiasi immagine… con me 🙂
Che si vada a cominciare!

OUTING
(attenti alle note a piè di pagina… potete anche leggerlo off-line. In fondo dovrebbe anche esserci l’iconcina per stamparselo ma se lo salvate come file non avrò un ramo di pioppo sulla coscienza)

Dopo 6 anni di sottili sotterfugi.
Di bassi espedienti e di mal celate propensioni, lo ammetto.
Mi auto impongo un’etichetta.
Mi schiero.
Sono un permacultore.
Non insegno Permacultura ma la pratico.*

Perché? Perché la permacultura è uno strumento di progettazione, è “un sistema per combinare concetti, materiali e strategie in modelli che operino a beneficio della vita in tutte le sue forme” (Bill Mollison, A Designer’s Manual, Tagari pub. 1988)
Non una fede.
Non una politica.
Ma un sistema progettuale che attinge ad un bagaglio infinito di tecniche. Una forma di architettura i cui modelli risiedono negli ambienti naturali.

Leggere Fukuoka e trovarsi a dare la caccia ad enormi quantitativi di trifoglio bianco o ad una fantomatica argilla rossa in polvere sperando di averne un feedback (resa) è fede non tecnica.
Spesso mi trovo ad insegnare in corsi residenziali di 5 giorni i principi e le tecniche dell’agricoltura sinergica di Emilia Hazelip perché il sistema che ho sperimentato ed approfondito maggiormente e che, nella mia esperienza personale, può essere uno strumento fondamentale per avviare processi di autoapprendimento e di analisi consapevole.
Ma è una tecnica, non è una fede.
Emilia era una persona eccezionale ma il culto della persona e delle sue idee è una cosa, la tecnica di progettazione o gestione delle coltivazioni, un’altra.
Ci sono situazioni in cui probabilmente utilizzerei altre tecniche per ottenere il duplice risultato di avere una resa che contemporaneamente soddisfi i miei bisogni e quelli di un ambiente naturale da supportare e con cui integrarsi. Bisogni che andranno ovviamente mediati e bilanciati con quelli del contesto.
Questo ci riporta al concetto di “beneficio della vita in tutte le sue forme”. Noi compresi. La biodiversità naturale e le sue (nostre) risorse…

Quindi. Io sono un permacultore.
E’ in quest’ottica che stiamo progettando la nostra vita ed il terreno in cui ci andremo ad insediare.

Di tanto in tanto, tra i commenti di questo delirante contenitore di parole se ne incastrano alcuni che richiederebbero enciclopedie intere per poterli approfondire in maniera adeguata. [Qui Davide, Qui Elena
In entrambi i casi, su scale diverse, viene sollevata la problematicità di un certo tipo di sviluppo e di pratica in un contesto “tradizionale”. Tradotto: “Si, si, bello… ma come ci campi? Ci stiamo a provare tutti…”
Non esistono risposte standard.
Esistono i progetti e come questi vengono elaborati.

Uno dei focus principali della progettazione è la “resa” (yeld) della progettazione stessa.
In un piano di fattibilità da economista standard la “resa” sarebbe un dato meramente numerico basato su un “core business” o su un prodotto specifico. In un piano di fattibilità in permacultura la “resa” assume un significato infinitamente più ampio e più di difficile definizione (molte di queste rese non è possibile analizzarle se non con strumenti di analisi estremamente sofisticati). Se fossi sicuro di non essere mal interpretato direi che la resa è di “qualità olistica”. Ci saranno delle rese per me, delle rese per l’ambiente naturale e per sostenere la comunità – in tutti questi giri di “rese” aiuta molto crearsi delle mappe mentali simili a quelle di Odum sostituendo “rese” a “energia”.
Se non riesco a coprire tutto questo bagaglio di bisogni il sistema non sta in piedi. La coperta, se si sbaglia la progettazione, risulta immediatamente troppo corta.

L’agricoltura “tradizionale” tende a concentrarsi sulla resa economica – dato drogato dagli input degli “incentivi” all’agricoltura – a spese dell’ambiente e del contesto sociale (vedi uova alla diossina e varie forme monopolistiche).
L’agricoltura “alternativa” tende a concentrarsi sulla resa del contesto sociale (siamo tutti convinti di salvare il mondo) e, a volte, onestamente, a quella dell’ambiente. Per sostenere la resa economica rimane solo da appoggiarsi a sovrastrutture organizzative accessorie che appesantiscono la progettazione, spesso la deviano, più facilmente ne drenano le energie inficiandone ulteriormente le rese. Anche quelle che coinvolgono il contesto sociale.

Ci sono dei parametri di scala che vanno valutati in fase di progettazione, il rischio è “l’insostenibile sostenibilità” di una tecnica che diventa fede, politica, ideologia o, nei casi peggiori, green-business. Escluso l’ultimo, tutti questi elementi positivi sono, a mio parere, scontati in una progettazione in permacultura. Talmente scontati da essere trattati in maniera oggettiva e tecnica. Come un tavolo.
Il tavolo c’è, conosco le sue funzioni, i suoi impieghi, i suoi limiti, com’è fatto. Non ho bisogno di gravitarci intorno tutto il tempo o di dedicargli chissà quali attenzioni. So che ci mangerò sopra, non ho bisogno di osannarlo o decantarne universalmente le qualità ogni volta che ci appoggio su un piatto. E’ un tavolo, sono fortunato ad averlo.
Questo dovrebbe valere per qualsiasi “credo”.

Toby Hemenwey (formatore e progettista in permacultura autore di “Gaia’s Garden” – il libro che avreste voluto leggere al posto di “Introduzione alla Permacultura”. Cosa che avrebbe evitato a centinaia di persone di dare la caccia al Tagasaste o di ipotizzare lo sfondamento del soffitto dell’inquilino del piano di sotto per creare una doccia-serra dal design giapponese per il recupero dell’acqua) ha scritto un’interessante articolo sulla sostenibilità urbana opposta alla sostenibilità rurale e sulla forza e duttilità delle tecniche di progettazione in permacultura.
L’ho anche tradotto (colpa di Cristiano) ma è rimasto intrappolato nel mio portatile attualmente in coma farmacologico.**

Esistono centinaia di realtà “alternative”, progettate secondo parametri non convenzionali, in Italia. Un universo frammentato, multicolore. Si pensi a realtà storiche come Bagnaia, Urupia, Ontignano, Alcatraz, Cascina Santa Brea, il Bianconiglio, Zebra Farm, il Grembo, a singoli come Fabio Pinzi o a situazioni più “informali” come gli Elfi. Ci sono, esistono.
Funzionano? Si, no, chissenefrega. Io sono contento che esistano.
Credo che chiunque sia entrato in contatto con queste realtà se ne sia fatto un’idea personale ma non è questo lo spazio per analizzare la questione.

Quello che io trovo fondamentale per la sostenibilità di un’impresa sostenibile (scusate il bisticcio) sia il rifarsi ai patterns, ai modelli sia naturali – per ciò che riguarda gli aspetti ecologici e culturali – sia a quelli sociali ed economici. Le realtà sopracitate determinano dei modelli di riferimento analizzabili. Nessuno di noi inventerà mai più l’acqua calda…

Quando il problema è di carattere gestionale-economico, probabilmente l’errore è in una lettura di questi modelli o nell’adozione di modelli esistenti “tradizionali” non integrabili in una progettazione che ha basi, obiettivi e origini completamente diverse.
(Il motivo per cui Odum riuscì a dimostrare la maggior “resa” di un ambiente naturale rispetto ad uno coltivato fu la modifica dei sistemi di analisi di “bilancio”)

Il problema è che la progettazione si gioca su linee di confine molto nebulose.
Pensiamo ai pannelli fotovoltaici: Energia pulita “verde”, una possibilità di indipendenza e resilienza energetica. Ma i costi, la resa, l’impronta ecologica in fase di produzione e la loro applicazione su quali schemi di modello si muovono? La loro applicazione progettuale ha sempre un senso? O potrei ottenere un miglior impiego “permaculturale” del mare di energia che il sole ci riversa addosso raccogliendola e conservandola in altri modi?
Un motorino di nuova generazione inquina meno di uno vecchio, ma se io prolungo la vita di quello vecchio non evito che si debba costruire un motorino nuovo?
Lo stesso discorso è applicabile a tutte le altre energie che devono entrare nel nostro sistema (soldi compresi… che pur sempre energia sono).

La permacultura nasce in Australia dove, creare dal nulla una collina o un invaso d’acqua di 1000mq è cosina da nulla in un progetto più ampio di riforestazione e biorimediazione di una proprietà che ha estensioni territoriali simili a quelli di una provincia italiana.
Ma qui, appunto, siamo in Italia e i modelli sono in scala. Ma non solo. Nell’individuazione dei modelli noi abbiamo un bagaglio storico-culturale che, se da una parte è vincolo, dall’altra può essere un’enorme risorsa.

Io vedo una serie di problemi collegati allo sviluppo e alla gestione di progetti di sostenibilità energetica*** alternativi.

Il primo è legato a forme di “abitudine mentale” collegabili a pattern disfunzionali.
Un esempio classico è, a fronte del desiderio di iniziare un’attività di tipo agricolo, tuffarsi immediatamente in uno scontro diretto con il sistema agricolo attuale coltivando cereali perché agricoltura=cereali. In realtà i bisogni e la sostenibilità agricola risiedono spesso nella riduzione della coltivazione cerealicola non nella sostituzione del sistema di coltivazione. Questo è un po’ la falsa illusione dell’agricoltura Biologica.

Il secondo è legato a forme di business “alternativo”. Il classico ragionamento del “faccio cose, vedo gente, organizzo dei corsi, chiamo i wwofers, faccio un campo di volontariato internazionale…”. Tutte attività preconfigurabili come “precariato sostenibile” su cui non si può sicuramente basare una modifica dei modelli socio-economici e la sostenibilità di un progetto. Se di sostenibilità stiamo parlando stiamo parlando anche di resilienza e di capacità di modifica al cambiamento, se per qualsiasi motivo ad un certo punto dovessero mancare i volontari o questi ci costassero un botto in pranzi e cene che fine farebbe la nostra sostenibilità? Lasciamo stare la questione corsi che con la crisi economica e la maggior parte della popolazione insediata in grandi centri urbani dovrebbe assumere caratteristiche assolutamente mirate ed accessorie.

Il terzo è legato ad una forma molto italiana di provincialismo. Vediamo e studiamo cose interessanti e di valore all’esterno e cerchiamo di replicarle qui da noi (cosa spesso valida) ma tendiamo a dimenticare la specificità delle scale e dei modelli. E’ notevole come questo succeda in maniera democraticamente trasversale tra le categorie ideologiche. Leggo Fukuoka e cerco di riprodurlo facendo finta che non esista l’inverno e che ci sia una stagione dei monsoni. Vedo i successi(?) degli OGM e cerco di introdurli in Italia senza considerare l’impatto su un’agricoltura di dimensioni medio-piccole ed un territorio assolutamente disomogeneo. L’importante è essere ideologicamente “hipe”. E questo ci porta al punto n° quattro.
Le persone che spesso agiscono questi progetti di cui anch’io faccio parte.
Siamo quasi tutti cresciuti negli anni ’80, la teoria del “contenitore” ci pervade. Creiamo vuoti da riempire, siamo compulsivi. Spesso le scelte che facciamo sono di rifiuto dei modelli esistenti ma stentiamo a crearne di nuovi cadendo spesso nell’emulazione di modelli già dismessi – come il fascino di una stolta autarchia – e, quando lo facciamo spesso tendiamo a cercare di ignorare il contesto che ci circonda o ci dissanguiamo, novelli Savonarola e Giovanne D’Arco autodafé, per combatterlo.

Buckminster Fuller sosteneva che per cambiare un modello non serve combatterlo, devi renderlo obsoleto.
Sono convinto che questa sia la chiave di lettura giusta. Ma per rendere obsoleto un modello bisogna comprenderlo a fondo e introdurre le persone al nuovo modello alternativo che deve rispondere, comunque, ai loro bisogni non solo alle loro ideologie.
La permacultura è in grado di creare modelli nuovi e migliori degli esistenti, più efficienti ed efficaci ma per farlo deve rimanere strettamente collegata ai modelli ed alle scale mettendo in rapporto le energie e le rese del territorio, selezionando quelle più resilienti e preservandole in cicli regenerativi.
I progetti vanno fatti considerando le energie del micro-territorio in cui ci si insedia. Gli ideali sono le lenti con cui analizziamo ed osserviamo la realtà, non sono la realtà. Un po’ la storia del dito e della luna…

Noi stiamo iniziando il nostro progetto.
Non sappiamo come andrà a finire o come si estenderà nel tempo (anche se i risultati negli spazi minimi ed instabili degli ultimi 6 anni sono incoraggianti). So che l’obbiettivo è dare alla nostra famiglia un’alta qualità della vita ed avvicinare il nostro ettaro di terra alla migliore approssimazione dell’Eden.
Non disponiamo di ricette salvifiche o funzionali possiamo solo dire che sono stati fondamentali diversi aspetti:
Né troppo terreno né troppo poco.
Non troppo lontano da centri abitati.
Tempi medio-lunghi per raggiungere una situazione di bilanciamento dinamico.
Semplificazione fiscale.
Capacità di produzione di beni di scambio con la rete locale.
E poi… c’è tutto l’aspetto filosofico, naturale, estetico ed etico ma, spesso, per realizzare un sogno bisogna dimenticarselo per poi riscoprirlo come sorpresa in ciò che si sta facendo.****

E, ragazzi, ricordatevi la scala ed i modelli!

Le Note a piè di pagina

* Se Tiziano Ferro fa notizia facendo coming out sulle sue preferenze di genere vorrà pur dire che l’outing si può fare anche sull’ovvio…

** Il mio laptop del 2004 ha deciso che 7 anni sono troppi e, per ora, ha l’encefalogramma piatto… sappiatelo… se avete fretta di contattarmi vi conviene chiamarmi direttamente. E perdonatemi se mi dimentico delle cose… sono nel suddetto laptop e le connessioni con posta ed internet sono seriamente ondivaghe ed incerte.

**** Sia chiaro che quando parlo di “rese”, “risorse” o “energie” ne parlo nel senso più ampio del termine (cibo, combustibili, elettricità, soldi, reti sociali…). E, per proprietà transitiva, tutto ciò che determina il nostro benessere in un sistema dotato di un bilanciamento dinamico. Mentre, per “bilanciamento dinamico” intendo una situazione in cui la sostenibilità reciproca dei vari attori è garantita dallo spostamento continuo del fulcro. Se il bilanciamento fosse determinato da vettori fissi, secondo le leggi della termodinamica, si arriverebbe ad una situazione di “morte termica”. Sembra assurdo ma capita… anche nelle relazioni tra le persone. Un esempio classico in natura è dato dalle foreste, finché sono giovani sovraproducono “energie”, allo stadio di maturità ciò che producono consumano arrivando ad uno “zero termico” che inizierà inevitabilmente un processo regressivo fino a non entrare nuovamente in una rigenerazione…

**** Anche se non sembra in questo articolo si parla di soldi ed ecologia. Economia ed ecologia hanno la stessa radice greca “oikos”, casa, ad indicare lo studio del modo in cui si gestiscono le attività della vita siano esse umane e finanziarie o vegetali, animali o biochimiche. Siamo seduti su uno sgabello le cui gambe sono tutte queste attività… non considerare una può voler dire trovarsi a gambe all’aria con una commozione celebrale durante un pranzo di gala.

29
Dic
10

De Rerum Rustica (Catone in Narcan) puntata n°3

Questa serie di post dimostra come io non abbia capito niente di comunicazione via web o di come non me ne freghi assolutamente nulla.

Abbiamo lasciato il nostro buon Catone in puro delirio mistico pre-festivo.
Dicevamo: andiamo a cambiare i presupposti.
Non amo farlo in maniera “animistica”. Troppo facile, troppo scontato e troppo velocemente ascrivibile a simpatiche ed interessanti pratiche, come l’incollarsi cristalli di quarzo qui e là, mangiare solo foglie di frassino e il riallineamento delle energie interiori attraverso la focalizzazione dei punti di frizione dei corpi celesti sopra i 16 parsec.
Siamo seri.
Potrei dire che l’Agricoltura Sinergica salverà il mondo o che la permacultura è l’unica via per la salvezza di “quella vecchia troia della Terra” (cit. Lynn Margulis) ma, in realtà, sono solo tecniche (la prima pratica, la seconda di progettazione)
Sarebbe come sperare che Paris Hilton abbandonasse gli aerei rosa shocking tempestati di Swarowski, si trasferisse in una malga con pannelli fotovoltaici a seguire regimi alimentari attenti e sani (magari vegani) in una calda atmosfera al patchouli e, per questo motivo, potesse essere considerata una persona intelligente e piacevole da frequentare. Rimarrebbe un mezzo peluche sinaptico. Farebbe – forse – meno danni ma sarebbe comunque una disgrazia per il genere umano.
Quindi mi devo rifare a qualche cosa di “razionale” o, quantomeno, verificabile in maniera più o meno oggettiva.
Dove, per “oggettivo”, si intende qualcosa che faccia riferimento ad un linguaggio comune, condiviso, riconoscibile e riproducibile da chiunque, non soggetto ad interpretazioni (le tecniche sono interpretabili a meno che non siano stravolte in professioni di fede. A quel punto diventano cazzate)

A questo punto Catone schizza fuori dalle nebbie del trip grazie all’azione combinata di Narcan e calci nel sedere.
Howard Thomas Odum.
Non credo che abbia neanche mai fatto un orto in vita sua. Ma non è grave.
In ogni caso, Odum, ha prodotto un buon punto di partenza per la creazione di un vocabolario comune. Base necessaria e fondamentale per generare una reale rivoluzione agraria. Non i vari remix che le migliori menti agrarie degli ultimi 7000 anni sono riusciti a produrre seguendo il giro di basso della buona Martha Stewart (per chi non cogliesse la citazione a Martha vada a rileggere le puntate precedenti 1 e 2)
Per intenderci. La tecnologia OGM o le biotecnologie da marketing in generale non sono e non possono essere una rivoluzione proprio perché non sono un vocabolario.
GATTACA non è un vocabolario… è un’alfabeto! O un discreto film di fantascienza.
C’avete mai provato a fare una rivoluzione solo con un’alfabeto?
Combattente per la libertà n°1 – bwuevgw edcyc jjjol!
Combattente per la libertà n°2 – Cosa?
Combattente per la libertà n°1 – AFHGJJJ!
Combattente per la libertà n°2 – Eh?!
Combattente per la libertà n°1 – NLIJSWUE!!!!
Combattente per la libertà n°2 – ‘fanculo va!
Fine della rivoluzione.

Odum applica un approcio differente.
Al contrario del babbione studente di Zen che guarda il dito invece della luna, cosa che capita agli studenti Zen quando non sono intenti ad ascoltare il suono di una mano sola.
Odum si concentra sulla luna che, nel suo caso, sono le energie che percorrono, si consumano, si accumulano, girano e danzano in un dato Sistema.
Qui potete prendete come esempio laboratoriale il vostro orto, campo, aiuola di – saranno – tulipani, bio-regione.

Ragazzi, qui siamo alla preistoria della permacultura… Bill Mollison sta ancora facendo il tagliaboschi in Tasmania e Holmgren scava enormi swale nella sabbiera della scuola creando gravi incidenti con le maestre ed i compagni.

Attraverso il vocabolario energetico creato da Odum (battezzato – sigh – energese) siamo in grado di mappare i flussi di energia (economica, fisica, chimica ecc… ecc…) di un dato sistema, le dispersioni, gli accumuli e quant’altro. Proprio come se l’ambiente che ci circonda fosse un circuito elettrico.
Lui l’ha fatto e, negli anni seguenti, milioni di altri simpatici soloni e, provate un po’ ad indovinare? Qual’è il sistema che ha il miglior rapporto energia impiegata – energia resa (detto anche EROEI)?
Bof! Mettiamola così: i sistemi naturali – boschi foreste ecc… – fanno sembrare il nostro sistema agricolo un immenso costosissimo trabiccolo in grado di accendere per 10 minuti un’abat-jour grazie alla spinta congiunta di 60.000 criceti inzuppati nel Gatorade(tm).

Punto.

Diagramma di un ecosistema generico secondo Odum

Proviamo ad indovinare: quante progettazioni agrarie-agricole vengono fatte tenendo in considerazione questi dati?
Quando ho provato a porre questa domanda a Biella avevo già perso il 99% dell’uditorio da un pezzo ma, essendo una domanda retorica, per non farmi sentire solo soletto nel fascio del videoproiettore, qualcuno ha azzardato un “nessuno?”. Boh? Non lo so. Magari qualcuno l’ha fatto ma, apparentemente, non abbastanza visto che i campi vengono utilizzati per impiantare enormi parchi fotovoltaici…
Ok. Studiate Odum.
No. Non vi servirà per fare l’orto.
Vi servirà per vivere. Per avere una griglia che, vagamente, vi permetta di comprendere la complessità di un sistema, quello naturale, che non sarebbe altrimenti leggibile se non attraverso i frazionamenti successivi di un ottica riduttivista oppure attraverso un’onanistica forma di etica spirituale.
La gramigna mi sommerge. Diserbo.
Oppure.
Il pomodoro è bruttino. Bagno solo in giorni di aria e concimo con cenere di finferlo.
Non è così semplice. Non lo è mai.
Ma potete comunque darvi alla biodinamica o a qualsiasi altra pratica senza porvi troppe domande.
Paris Hilton è con voi.

Oh! Se vi aspettate delle risposte da questa mia delirante esposizione: dimenticatevele.
Non ho risposte per me, figurarsi se ne ho da distribuire in giro… sono un cialtrone mica per niente…
Prendete le suggestione e cercate le risposte. Il primo che arriva dia un colpo di telefono agli altri.
Grazie.

Questa in realtà la devo ad una chiacchierata con Massimo Ippolito.
Non sempre ci si pensa ma qualsiasi forma di energia (e materia in quanto energia potenziale) presente in circolazione è solo un sottoprodotto dell’energia solare. E le piante sono le uniche cose che riescono ad elaborare quest’energia al 100%.
Quando me l’ha detto m’è sembrato assolutamente ovvio. Un po’ come i tagli nelle tele di Fontana, ovvi ma non scontati. (Non amo Fontana ma passatemi l’esempio)

Bene. Odum crea il suo simpatico energese (io non posso credere che si possa inventare un nome meno “spendibile” di questo. Ma un po’ di marketing sociale sulle materie scientifiche? No, così, giusto per rendere la vita un po’ più semplice a Piero Angela che c’ha anche una certa età…).
Ora. Se ce lo studiamo e lo adottiamo durante le discussioni saremo in grado di comprenderci attraverso un vocabolario comune. Basato, per quel che ci riguarda, sull’unica costante di cui disponiamo: l’energia del sole.

Come creare da un vocabolario, da singole parole una grammatica che ci permetta di interfacciarci con la nostra principale fonte di energia, l’agricoltura, senza consumare inevitabilmente buona parte dell’accumulo energetico svolto dalla Terra in milioni di anni? (si, ci sono anche quelli convinti che si possa vivere solo grazie all’assorbimento da parte del nostro organismo dei raggi solari… ma queste, quando si diffondono, si chiamano “disfunzioni alimentari”)

Io, per quel che mi riguarda, farei un salto indietro.
Non tanto nel tempo, quanto nei post.

Speravo di aver finito ma mi sa che va ancora per le lunghe.
Qualcuno regge ancora una puntata?
No.
Vabbè… allora me la brucio così… in due parole, poi fatene voi cosa vi pare.

Il nostro compito è progettare una produzione energetica alimentare (per noi stessi, per i vicini di casa, per il Gas di San Pietro Montalcina, per diventare ricchi come dei cresi incassando sovvenzioni paurose sullo zucchero di barbabietola… no. Questo no. Scusate.).
Quindi, mi appellerei a chi ha creato una grammatica della progettazione. Un sistema sintattico per progettare che tenesse in considerazione il Tutto: Cristopher Alexander.
Si, vabbè, ma noi dobbiamo coltivare, mica decidere dove vanno le finestre di casa. Direte voi. Si, è vero.
Ma provate ad inserire i tasselli di Odum, un po’ di biologia, un po’ di ecologia, un po’ di scienza agraria ed il bagaglio di tecniche e competenze che la buona Martha ha impostato e a riformularli in un “Pattern Language” agricolo.

Et Voilà.

via Ethan Roland di Appleseed Permaculture

La rivoluzione.

Sembra assurdo?
Non cosi tanto. C’è chi lo fa.
Ancora in maniera sperimentale, partendo da microsistemi noti. Ma funziona.
Qualche agrario si rende disponibile?

09
Dic
10

De rerum rustica (Catone in LSD compreso nel prezzo) – Puntata n°1

Quello che segue è più o meno il resoconto di ciò che un manipolo di ormonali futuri periti agrari ha dovuto subire in quel di Biella.

Immaginate la scena. Aula Magna (nulla di pomposo a parte il nome)

Enzo ha appena finito la sua parte sulla sostenibilità ed il nostro rapporto con la produzione alimentare.

In attesa che l’amico G parta con la descrizione “tecnica” dell’Agricoltura Sinergica io mi intrometto con l’otto-volante del pindarismo agro-eco-nomos-logico.

Che poi, in definitiva, dopo che ti ho fatto vedere cosa ha creato il nostro sistema alimentare e prima di descriverti una soluzione possibile cosa diamine vuoi aggiungere?

La prendo alla larga. Il presupposto di prenderla alla larga è che prima o poi si verrà condotti da qualche parte. Ce l’ha insegnato Cappuccetto Rosso. Io, di per mio ce la metto tutta per fare il Lupo (spelacchiato, raffreddato, cisposo ma pur sempre un po’ lupesco).


La Mesopotamia del 7000 a.C. È un punto abbastanza alla larga secondo alcune teorie un po’ semplicistiche ma generalmente accettate.

Una versione molto pelosa e con un notevole prognatismo di Marta Stewart inizia a lanciare dei semi fuori dal rifugio che condivide con Urgh, ottimo esemplare maschio da riproduzione. Tant’è che nella grotta si rotolano 7-8 marmocchi.

Urgh e la sua famiglia hanno smesso di vagare in giro alla ricerca “casuale” di cibo scegliendo la moderna vita stanziale del neolitico (vedi volantino illustrativo). Questo ha comportato alcuni problemi (vedi la sproporzionata quantità di marmocchi).

Comics di David Steinlicht

La nostra Marta Stewart, dovendo sfamare la progenie inventa una cosa di cui, secondo Jared Diamond, Bill Mollison, Fukuoka ed altri si poteva tranquillamente fare a meno: l’agricoltura.

La necessità della nostra pelosa nonna è quello di ottenere energia immediata nel minor tempo possibile. La scelta cade su sementi annuali (più facilmente riproducibili, ibridabili, selezionabili e, soprattutto, pronte da mangiarsi!)

Ok. Lo ammetto… seppur io condivida alcune teorie della Gimbutas non ne condivido il sesso il che mi rende un po’ meno legato alle questioni “politiche” di genere sessuale… ma giuro che se si vuole andare a bruciare i wonderbra in piazza mi unisco volentieri se non altro perché dopo quasi 30 anni di famiglia strettamente ginocentrica mi viene più facile che andare a bruciare i sospensori…

Ma torniamo a Marta.

L’agricoltura nasce, quindi, come produzione energetica “veloce” attraverso l’uso di piante annuali. E fin qui tutto bene, con buona pace di quell’essere inutile di Urgh che colleziona lividi ed abrasioni cercando di stabilire il sesso delle capre di montagna che ha appena finito di recintare. La caccia è ormai una scusa per mollare a casa la famiglia ed andare a scovazzare con gli amici nei villaggi vicini.

E, mentre l’inutile maschio, s’aggira creando i presupposti per un disastro demografico, la Marta inizia ad impostare le solide basi per un’agricoltura insostenibile, irrazionale e controproducente:

il diserbo, la lavorazione del suolo, le concimazioni e l’irrigazione.

Forse sperava così di eliminare i problemi causati da Urgh.

Una roba un po’ alla “muoia Sansone con tutti i filistei ma soprattutto quel pirla del padre dei miei figli” con buona pace del senso materno e della protezione della specie… pim pum pam. Uno di quegli svarioni alla Vicki di “Io, Robots” (nella versione di Alex Proyas… sigh…).

No. aspettate. Non vi perdete.

A cavallo della Seconda Guerra Mondiale il buon Dr. Lowdermilk (tenete a mente: Americano… sembra una bojata ma poi…) parte per un giro del mondo dell’agricoltura per studiare cosa ha portato al collasso produttivo le varie colture e società (un Jared Diamond senza i germi e le pistole molto prima di Jared stesso) e provate ad indovinare cosa ne deduce?

Che il diserbo, la lavorazione del suolo, le concimazioni, l’irrigazione e la pastorizia (volevate mica che Urgh si limitasse alla sovrappopolazione) sono state le principali cause del fallimento della produzione energetica e, conseguentemente, delle società che quest’energia supportava.

Si perchè, per ora, quando si parla di agricoltura si parla di ENERGIA (cibo, legna, materiali da costruzione, vestiario… arriva tutto da li. Ma soprattutto: cibo. Che senza poter mangiare, col cavolo che i tecnici sulle piattaforme petrolifere estraggono il prezioso greggio…)

Ma intanto, noi siamo in una valle fertile, tra due enormi fiumi, il Tigri e l’Eufrate.

Qui, nasce l’agricoltura. Sempre secondo le solite teorie un po’ semplicistiche ma universalmente accettate (d’ora in poi sintetizzato con S.T.S.)

A dimostrazione delle analisi di Lowdermilk, qui dove siamo, ora ci sono 6000 contractors del governo americano (cifre sparate a caso) ed una serie di imbarazza nti questioni geopolitiche nel bel mezzo di una distesa di sabbia farcita di cadaveri di dinosauri. Fine del terreno fertile.

Ci sarebbe da soffermarsi sul fatto che in ogni caso le prime forme di energia si sono mosse da li: agricoltura prima, petrolio poi… ma sono già sufficientemente confuso così.

La particolarità è che la stessa cosa è successa ai terreni che vennero dedicati all’ approvvigionamento dell’Impero Romano e ad intere aree intorno al fiume giallo in Cina…

Tutte zone in cui con l’espandersi delle richieste energetiche della popolazione si provvedeva a disboscare e arare zone collinari, o dove si creavano grandi e complesse opere irrigue che o collassavano sotto il peso di una manutenzione improbabile o, alla lunga, sedimentavano sali attraverso l’evaporazione in un terreno che, se trattato diversamente, sarebbe potuto essere altamente produttivo.

Quindi, possiamo tranquillamente dare per scontato che:

l’agricoltura nasce come produzione di energia

l’agricoltura tende a creare problematiche che ledono l’agricoltura stessa

I discendenti di Urgh e Marta se ne rendono conto e spendono sempre più energie per tenere in piedi il sistema. Anche perché i figli sono sempre di più e le richieste sempre in aumento.

Tant’è che i fenomeni di carestia e le guerre per le risorse sono all’ordine del giorno.

Anche se bisogna dire che era comunque un bel l’andare… all’inizio dell’inverno si costruisce un grande cavallo di legno, lo si porta davanti al villaggio nemico, ci si scazzotta per tutto l’inverno con grandi gesta di eroismo ed atti di inconsulta vitalità machista, si scrivono un paio di capolavori che possano rimanere negli annali della cultura mondiale e si torna a casa in tempo per la nuova annata agraria. Niente a che vedere con le guerre moderne.

Ad ogni carestia, essendo noi animaletti dotati di una peculiare capacità di inventiva, (peculiare perché non sempre abbinata ad una sana capacità di preveggenza) si trovava una soluzione.

Carestia. I Sumeri inventano la canalizzazione irrigua (con conseguente salinizzazione della Mesopotamia)

Carestia. Gli egiziani inventano l’aratro a buoi (con conseguente maciullamento della struttura del suolo soprattutto se applicato a terreni minimamente in pendenza)

Carestia. Jethro Tull inventa la meccanizzazione delle seminatrici (con conseguente ipersfruttamento del suolo)

Carestia. VonLiebig teorizza l’agricoltura chimica (che manco ci pensava lui ma la Bayer ringrazia)

Carestia. Norman Borlaug si becca il nobel per la pace con il grano con cui conduce la sua Green Revolution (impoverimento della biodiversità, aumento delle meccanizzazioni, irrigazioni, concimazioni chimiche e diserbi… ma che bello…)

In mezzo a tutto questo inseguirsi di carestie e soluzioni si inserisce l’unica vera rivoluzione che abbia mai stravolto la faccia del pianeta (dopo l’invenzione dell’agricoltura): la rivoluzione industriale.

 

Mi spiace… vi toccheranno altre simpatiche puntate…



28
Dic
08

Cialtroni di tutto il mondo unitevi

Tutto dorme sotto un sottile strato di neve ghiacciata.
Tutto è a riposo.
Qui, ai confini dell’urbano, ci si prende il tempo per fare elenchi su elenchi di progetti e realizzazioni che non si riuscirà mai a sviluppare in primavera e a sfogliare cataloghi di sementi.
Attività che assume la forma di una satira dei Monty Python quando si leggono le pretese promesse di pomodori mai visti e melanzane delle dimensioni di zucche… deve esistere un’analogia nascosta tra le descrizioni dei cataloghi di sementi e le narrazioni di flora e fauna di paesi lontani fatte dagli esploratori del ‘400 – ‘500, quelle in cui si raccontavano di cavalli cornuti grandi come palazzi ecc… ecc…

Buona parte dell’orto è già impostata grazie anche al provvido arrivo della famosa grellinette che mi ha permesso di accelerare i tempi senza spaccarmi la schiena.
Che poi, che senso ha?
Cioè, lo so perfettamente che senso ha… ma se si pensa che il 97% di una pianta si genera dall’aria ci si sente veramente un po’ insensati a spaccarsi la schiena per quel fottuto 3%, che poi può essere ampiamente svolto da funghi, batteri ed artropodi se messi nelle condizioni di lavorare

Estremizzando il concetto.
Noi respiriamo un mix di ossigeno, azoto e biossido di carbonio, le piante attraverso la fotosintesi estraggono il carbonio dall’aria e lo fissano in catene di composti organici. Punto.
La restante parte di un orto è puro gusto estetico antropocentrico ed ansia da controllo.
Oblomov sarebbe d’accordo con me.

A questo ragionamento sovrapponete la definizione di ecologia data da Stefan Buczaki ne “Il Giardino Ecologico” in cui viene definita, non tanto come la preservazione delle balene o l’ansia da petroliera che si spacca, ma come l’attenzione “a tutto quel che vive, dove e perché”. La parola ecologia deriva dal greco oikos, casa e logos studio… estendete il concetto di casa fino a comprendere il luogo dove ogni organismo vive ed avrete l’esatta definizione di ecologia.

Completate il tutto con la citazione di Bill Mollison dal video “The Global Gardener” in cui, comodamente sdraiato all’ombra di un albero sostiene che un orto ben progettato è quello che ti permette di sonnecchiare piacevolmente tra la verdura non osservato da occhi indiscreti.
Et voilà!

“L’orto di carta” del prossimo anno!

Addendum:
Questo post è stato scritto dopo che ho visto circolare alcune comunicazioni che diffidavano dal credere ai “faciloni dell’agricoltura naturale”.
Ops! 😉

05
Ott
08

diario di campagna n°184

Giorno di libera… i wwoofers Neo zelandesi vanno a caccia di onde con lo sgangherato furgone comprato in Inghilterra. Noi andiamo semplicemente “al mare”.
Finalmente: castelli di sabbia invece di buchi nella polvere!!

Per un “culetto batuffolino da ranocchietta morbida” come il mio, la Sardegna rimane un posto “limite”, un confine. Qui ogni limite, ogni forma, ogni odore è più leggibile.
Forse solo perché sono agli “antipodi” del mio conosciuto quotidiano…

Sono in spiaggia e mi guardo intorno, i pattern naturali sembrano marcati con un evidenziatore.

In permacoltura i pattern sono gli “schemi” entro cui incasellare i componenti di una progettazione. Sono la struttura portante, la griglia, di una progettazione.
I pattern sono immediatamente riconoscibili e ciclici… come le canzonette o… gli spot pubblicitari.

Superando gli schemi razionali e rigorosi della geometria euclidea si trovano gli schemi naturali, imperfettamente rotondi, mai lineari se non per porzioni infinitesimali… testardamente anormali.

I pattern sono riscontrabili dall’osservazione delle forme naturali… sono in spiaggia:

Onde – questa è semplice… c’è il mare e la forma “congelata” delle dune.
Flussi – l’acqua che scroscia sulle rocce, la schiuma creata dalle onde.
Lobi – il crinale della scogliera, lo sviluppo dei licheni sulle rocce di granito.
Ramificazioni – i rami contorti degli alberi, le tracce dell’erosione sul terreno.
Macchie – i gruppi di canne, i gruppi di corbezzoli spontanei.
Reti – l’argilla che spacca sotto il sole, i favi delle api nel campo accanto.
Nembi – la chioma dei cespugli della macchia e, ovvio, le nuvole di passaggio.

La visualizzazione e comprensione di un pattern generalmente applicabile è equivalente all’apprendere un principio che si potrà riprodurre o generare in una progettazione.

Ma domani si torna al lavoro… questa volta 5000 piante di rosmarino… rigorosamente in linee rette a favore di erosione… Avrebbero potuto, probabilmente, starcene 7000 mantenendo il passaggio per il trattore ed i mezzi meccanizzati se si fosse seguito uno schema a linee curve ma non rientrava negli schemi euclidei del tecnico agrario che ha presentato il progetto…

La parte sui pattern è liberamente “ricordata” dalle svariate letture di A Designers’ Manual di Bill Mollison…

21
Apr
08

Diario di campagna n°66

LA TEORIA DELLA COMPLESSITA’ DEI SISTEMI

APPROFITTANDO DELLE PIOGGE primaverili si sta seminando gli orti, mentre nella serra-sgabuzzino le piantine più delicate si danno un certo tono…
La struttura degli orti si sta comportando bene, mentre i campi di mais circostanti assomigliano a risaie, i letti dell’orto sono perfettamente drenati e la copertura di paglia ne evita il dilavamento… e la conseguente dispersione dei suddetti semi.

CI SONO DIVERSI motivi per cui mi sono avvicinato all’agricoltura sinergica ed alla permacultura.
Il primo è, ovviamente, che sono pervaso da una forma cronica d’indolenza.
Mai e poi mai sarei stato in grado di fare una “doppia vangatura” per l’appezzamento a patate. Il secondo è conseguente: l’indolenza è una forma di risparmio (energetico, economico…), l’agricoltura sinergica e le progettazioni in permacultura prevedono un bassissimo input di energie e risorse (concimi ecc…), il terzo è perché sono un cialtrone… bhè, si, ci sarebbe anche tutta una serie di motivi politico-filosofico-religiosi ma passano sicuramente in secondo piano (soprattutto quelli filosofico-religiosi…). E il mio cialtronismo si sposa perfettamente con alcuni presupposti della permacultura:

“La seconda legge della termodinamica… [afferma che]… le energie tendono a dissiparsi e nei sistemi organizzati derivano inevitabilmente verso l’entropia, o il caos. In apparente violazione di questa legge, i sistemi biologici tendono invece a diventare più complessi ed efficienti.”
(Newsweek, 24 Ottobre 1977 citato su “Permaculture. A Designer’s Manual”, Bill Mollison, ed. Tagari)

“Nel Caos soggiaciono opportunità non lineari per un ordine creativo”
(“Permaculture. A Designer’s Manual”, Bill Mollison, ed. Tagari)

“L’ordine si riscontra nelle situazioni in cui le cose collaborano positivamente tra di loro. Non nella condizione di forzato ordine, pulizia e rigore che, in un’ottica di progettazione (in permacultura) e di energia, sono considerati disordine. Il vero ordine potrebbe risiedere, in realtà, nella confusione; la cartina di tornasole per testare l’ordine entropico di un sistema è: se consuma più energia di quanta ne produce è in disordine, se produce la medesima, o più, energia di quella che consuma il sistema è ordinato”
(“Permaculture. A Designer’s Manual”, Bill Mollison, ed. Tagari)

DETTO QUESTO SI CAPIRA’ che come alibi sono eccezionali, ma soprattutto come io possa pensare di gestirmi un orto di quasi 800 mq da solo avendo comunque il tempo di svaccarmi a guardare le nuvole…
Per dare un’idea di cosa succede… questo è lo schema di come ho seminato una minima parte del primo orto…
La complessità dei sistemi
A- Aglio+lattughine da taglio
B- Fagiolini nani
C- Calendula
D- una zucchina
E- non so dove l’ho messa
F- mi pare nasturzio, T è sicuramente tagete
Da qualche parte c’è del romolaccio
I- Prezzemolo?
Spinaci quà e là… dove c’è la P ci sono delle carote ma vi troveranno posto anche dei pomodori appena le piantine saranno un po’ più robuste…
Senza parlare delle aiuole “tre sorelle” e le patate nei copertoni…
Il resto non me lo ricordo più bene… ma aveva un senso…

RISORSE SULLE CONSOCIAZIONI:
Articolo dell’ATTRA con schemi sulle “tre sorelle”… Mais, zucche, fagioli
Ottimo schema di consociazioni creato da Ute Bohnsack
Estratto dal manuale sulle consociazioni della Rodale (pdf)
Gli appunti di Emilia Hazelip con numerosi schemi




L’ orto di carta

Diario di bordo ad aggiornamento casuale e saltuario di un cialtrone nell'orto... giocando con il fango, la permacultura, l'agricoltura sinergica in compagnia di William Cobbett, John Seymour, Fukuoka e Kropotkin.

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