Posts Tagged ‘Peak Oil

22
Apr
11

Changes

Quasi 7 anni dall’inizio.
Se mi mettevo di buzzo buono potevo prendere un paio di lauree brevi. Sicuramente avrei avuto delle semplici collinette rispetto alle montagne di carta attuali e meno esperimenti falliti.
E invece, chi guarda verso il campo, vede un tipo allampanato, impunemente abbigliato come un orfano dei Mother Love Bone che insegue disperatamente periodi di semina e traccia piste di ife fungine.
In realtà, per ora, non è così facile vedermi.
Ogni tanto, si cambia.
Fa parte della natura delle cose.
Le piante migrano, i panda cercano disperatamente di estinguersi.

Si cambia. Ed in questi casi, i miei genitori, mi hanno insegnato che si deve chiedere scusa a chi si è deluso e ringraziare le persone da cui si è ricevuto materialmente ed emotivamente molto.
Tra le scuse spiccano quelle che vanno ai ragazzi della Transizione in Umbria dove avrei dovuto essere in uno dei prossimi weekend e che, invece, ho ignobilmente paccato per mille motivi – buoni per me ma non, giustamente, per loro. Scusatemi, potete consolarvi con l’idea che un cialtrone non ha dovuto attraversare mezza Italia, avrei sicuramente consumato più di ciò che vi avrei potuto dare.
Ma detto così sembra un epitaffio.
Rifo.

Non ho mai avuto intenzione né di diventare un autarchico né di diventare un commesso viaggiatore della sostenibilità e della neo-ruralità, tanto meno di aprire l’ennesimo Bed&Breakfast della formazione alle pratiche sostenibili.
Quello che volevo fare da grande era vivere bene.
Vivere bene vuol dire, nella mia accezione, sganciarsi dal sistema consuma-crepa, non cascare nella logica da terziario anni ’80 del “siamo tutti fornitori di servizi” (pessima abitudine su tutti i versanti della barricata) ed evitare la tendenza “squatter” del “ho finito i soldi, costruisco bonghe per svoltare il mese”. Ma, negli ultimi anni, ho abbondantemente spizzicato qua e là da tutte le tendenze.
Ora, è meglio se inizio a fare ciò che può veramente determinare il mio (e di altri) vivere bene.
Produrre.
Dimostrare attraverso la pratica un teorema.
La produzione di energia (nel senso più ampio ed estremo del termine) è uno “stile” fattibile anche su un fazzoletto di un ettaro e senza spolpare troppi liquami di dinosauri morti.
E quindi, cedo il passo.
Iosononicola ma non sarò più l’OrtodiCarta.
Ma detto così sembra l’epitaffio del blog.
Rifo.

Quasi 7 anni dall’inizio.
Non siamo più soli.
Le cose cambiano e, se si vuole e si accetta il confronto con la nobile arte della burocrazia (sofisticata forma di ju-jitsu socio-politico), in meglio.
Ma questa volta c’è da lavorare.
(Io non so esattamente cosa voglia dire… ma non siamo più soli: me lo spiegheranno)
Primo: costruire casa (la dolce vichinga che ho sposato sta imparando l’infallibile mossa delle sette stelle di Okuto)
Secondo: proseguire nella pianificazione delle successioni nel campo ed impostarle
Terzo: dare corpo e struttura ad OrtodiCarta che, da luogo dei miei “sbraghi sbilenchi” diventa soggetto collettivo – Il blog resta perchè è il mio spazio privato ma OrtodiCarta diventa un progetto fisico (e magari inizierà a godere di una sua comunicazione spontanea… ma, fortunatamente per il lato “istituzionale”, non me ne sto occupando io)
Quarto: dimostrare che una Fattoria di Transizione è possibile anche senza organizzare corsi di uncinetto cromoterapico, sfruttare 10.000 volontari o aprire un Bed&Breakfast (o facendo tutte queste cose ma in maniera assolutamente collaterale, casuale e involontaria).
Se di sostenibilità si parla… non vale bluffare. Poi, fate quel che vi pare. Io ho i prossimi 40 anni per dimostrare un teorema.
Ma un teorema devo dimostralo nella pratica e documentarne lo svolgimento.
Poi, rimango uno gran cialtrone e una delle cose che amo di più fare è raccontare in giro quello che faccio e sperimento ma per un po’ non mi muoverò più (appuntamenti già fissati a parte e a meno di ottime ragioni – soggettive – per paccare)
Ma sapete dove trovarci: Qui o .
Come sempre.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

PS.- La prode ed abile compilatrice di codici sta febbrilmente lavorando sulla nuova finestra comunicativa… si accettano consigli e complimenti 😉

11
Feb
11

Disastri (in città ed in campagna)

Come dicevo qui avevo tradotto un’articolo di Toby Hemenway, a mio parere, parecchio interessante. Purtoppo, un’attenta autopsia del vecchio portatile ha mostrato come l’hard disc si fosse fuso, neanche fosse stato toma da raclette… Quindi, in tempo record, l’ho ritradotto.
Mentre lo leggete cercate di camminare leggeri sulla prima parte e più pesanti sulla seconda.
Lo pubblico sia come post che come documento scaricabile su scribd… scegliete la forma che preferite.

Urban vs. Rural Sustainability

di Toby Hemenway
Pubblicato su Permaculture Activist 25.12.2004

Più di dieci anni fa io e mia moglie ci trasferimmo in campagna. Una delle molte ragioni che ci spinsero a lasciare la città era il poter finalmente perseguire il sogno di una autosufficienza: creare una fondo progettato in permacultura che limitasse il nostro consumo di risorse e che ci permettesse di approfittare maggiormente dell’abbondanza della natura. Nascosta nel profondo dei miei pensieri cera la sottile sensazione che, prima o poi, il party dell’iperconsumo sarebbe finito – il petrolio si sarebbe esaurito e le cose sarebbero potute degenerare. Volevo riuscire a collocarci dove avremmo potuto essere meno dipendenti dai combustibili fossili quando il cordone ombelicale del petrolio si sarebbe rotto.

Abbiamo fatto un sacco di strada verso la realizzazione di quel sogno. La rossa argilla di quella che era una radura artificiale divenne terriccio color del cioccolato anche se notai come, nonostante i nostri alberi crescessero e maturassero, io avessi bisogno di importare cippato dalla centrale elettrica o letame dalla stalla a due miglia di distanza. Dal giardino proveniva un flusso continuo di frutta e verdura ma, confesso, facevo finta di ignorare la quantità di acqua che dovevamo estrarre dal pozzo quando la riserva di acqua piovana si esauriva nei quattro mesi di stagione secca dell’Oregon Meridionale.

Ci inserimmo nella comunità locale: Master Gardeners, un gruppo ambientalista, incontri cittadini. Nonostante l’iniziale impegno nella vita locale mi trovai a preferire il viaggio di 1 ora che mi divideva dall’andare a trovare un gruppo di amici progressisti ad Eugene piuttosto che scontrarmi con la mentalità pro-abbatimento alberi che permeava la nostra zona. Negli anni perdemmo i pochi amici locali che avevamo come conseguenza al legame con i gruppi di Eugene e al fatto che l’economia locale mi costringeva ad allontanarmi di casa per settimane intere per insegnare o per la realizzazione di progetti. Eravamo in ottimi rapporti con tutti in ostri vicini ma, in realtà, non avevamo grandi basi comuni di condivisione. Le feste locali iniziavano con birra annacquata e, spesso, terminavano con risse tra ubriachi, entrambe cose che non ci andavano troppo a genio.

Lentamente mi feci cogliere da una sottile paranoia. Iniziai a chiedermi se, nel momento in cui si fosse avvenuto Il Big Crash, noi fossimo realmente nel posto giusto. Avevamo l’orto-giardino migliore per miglia e miglia, lo sapevano tutti. Se il sistema fosse collassato non c’era forse la possibilità che il mio vicino, un spacciatore di metanfetamine ex-galeotto collezionista di armi, mi sparasse per tutto quel cibo? E che dire del fondamentalista destrorso che vive dopo di lui che spara alle ghiandaie per divertimento e che abbatté tutti gli alberi della sua proprietà quando scoprì che forse ci abitava una civetta? O le due famiglie feudali un po’ oltre – uno di loro sparò un colpo di pistola durante una discussione e nessuno di loro ha mai ceduto il passo all’altro quando le auto si sono incontrate sulla strada. Iniziai a percepire i confini di un modello personale che si replicava nella società collettiva. Abbiamo i mezzi tecnici per sfamarci, per vestirci e per dare un tetto a tutti. Ma legioni intere patiscono la fame perché non abbiamo imparato a tollerarci ed aiutarci l’un l’altro. I problemi reali delle persone non sono tecnici ma sociali e politici. A Douglas County avevo risolto molti dei problemi tecnici per garantire la nostra sopravvivenza ma i limiti sociali alla vera sicurezza erano li di fronte a noi.

Il nostro isolamento significava, inoltre, un’enorme consumo di combustibili. Un semplice viaggio fino alla drogheria comportava un giro di 40 minuti. Fortunatamente potevamo lavorare entrambi a casa e non abbiamo figli cosa che ci permetteva di lasciare la macchina ferma per giorni. Ma il contachilometri stava raggiungendo cifre mai viste in città. Un paio di famiglie avevano lasciato le loro casa in zona perché non ce la facevano più a fare dai due ai quattro viaggi tutti i giorni lungo la strada sterrata piena di buche per andare a lavorare, a scuola, ai corsi di calcio, alle lezioni di musica o a fare shopping.

Ci siamo goduti gli oltre dieci anni in campagna ma, probabilmente, gli indizi di una realtà differente iniziavano ad accumularsi. Non c’era mercato locale per il nostro lavoro. Gli eventi locali ci lasciavano sempre un po delusi per l’abisso di differenza tra il nostro stile di vita e quello degli altri. Ed eravamo ancora incatenati al mostro dei combustibili fossili, la catena di cavi, tubature ed asfalto era molto più lunga. Il fatto che il mostro sembrasse più piccolo visto da lontano non ci ingannava più.

C’era comunque un aspetto positivo. Avevamo raggiunto lo scopo che c’eravamo posti: dare un senso alle nostre vite, fare il lavoro che amavamo, e crescere come persone. I presagi erano chiari. Era ora di tornare dove c’erano le persone, tornare al centro delle cose un’altra volta.

Ci trasferimmo a Portland, nel centro città. Ci piace moltissimo. Il primo segnale positivo fu la mercedes bio-diesel con un adesivo di Kucinich dal lato opposto della strada. E’ una gioia essere a pochi passi dalla libreria, da un buon caffè e da Ben e Jerry’s.

Nei primi giorni in città stavo fermo nel porticato sul retro a guardare il nostro giardino, sognando di progetti in permacultura. Il solo albero presente era uno spennato pruno. Oltre a quello solo una spianata dominata da un patio in mattoni, un prato ed il sentiero battuto di un cane. Ed è anche un giardino piccolo. Mi chiedevo come fare ad inserirci tutti gli alberi dei miei frutti preferiti in quel micro spazio.

La risposta arrivo poco dopo. Il pruno si spingeva oltre la palizzata che dividiamo con il nostro vicino Johnny il quale abita lì da 55 anni. Un giorno, io e Johnny, dai lati opposti della palizzata, stavamo raccogliendo una piccola parte dell’enorme carico di prugne che piegavano i rami dell’albero, lui mi chiese “ti piacciono i fichi?”. Risposi di si e, a breve, un secchio pieno di fichi neri saltò dalla nostra parte del giardino.

Continuavamo a restituire il secchio ma, in un modo o nell’altro, lui continuava a tornare quasi immediatamente indietro pieno di altri fichi. “Non eravate qua per il raccolto delle albicocche” ci disse Johnny “Ma il prossimo hanno ne farete il pieno”.

Man mano che le cassette di prugne si accumulavano in giardino, provai a scaricarne un po’ su Theressa, dall’altra parte della strada. “Oh, no” ci disse “Ho il mio albero. Ma quando le granny smith’s saranno pronte sarà meglio che veniate a darmi una mano. Ed il prossimo anno verrete invasi dalle pesche”

Quando ho incontrato il mio vicino Will mi ha pregato di prendere qualcuna delle pere che stavano per marcire nel suo giardino. Il castagno in cima alla strada sta fruttificando abbondantemente anche se la comunità asiatica si sveglia sempre molto presto per raccoglierne i frutti, molto prima che io mi svegli. Ho assaggiato un paio delle noci che crescono qua in zona e non sono male. Ieri, inoltre, ho scoperto un corbezzolo carico di frutti.

Questo ricollocamento informale delle risorse locali ha modificato il mio approccio alla progettazione del paesaggio. Non ho bisogno di coltivare tutti i miei alberi preferiti ma solo quelli che non sono presenti nei giardini dei miei vicini (sto pensando ad una qualità particolare di pere, kaki ed alcune mele da conserva e premature). I giardini dei miei vicini sono le mie zone 2 e 3 [nde: è uso comune nelle progettazioni in permacultura dividere la proprietà in zone numerate da 1 a 5 in base alla prossimità con la casa ed ai livelli richiesti per la loro manutenzione]. Paul, Stacey e Troy, nell’isolato dopo il nostro, hanno convinto il proprietario di un lotto vacante a prestarlo ad otto famiglie per creare un community garden. Un servizio di potatura locale scaricherà, a breve, il cippato per la pacciamatura a strati ed il prossimo anno saremo sommersi dal cibo.

La Grande Impronta Rurale

Ho sempre dato per assunto che le città fossero il posto peggiore dove stare in periodi difficili. Sto rivedendo le mie posizioni. Va da sé che Portland è un posto speciale. (Shhhh! Non ditelo a nessuno) Ma non posso fare a meno di paragonare il mio nuovo vicinato a quello vecchio. La eravamo dodici famiglie su una strada di più di tre chilometri con viali d’accesso lunghi centinaia di metri tutti serviti da lunghi cavi del telefono ed elettrici, ognuno con la propria fossa settica ed il proprio pozzo, tutti collegati su tragitti lunghissimi. Con posizioni politiche e sociali così divergenti che le faide, i pettegolezzi e le chiacchiere vacue su argomenti “neutrali” erano all’ordine del giorno.

In città, lo stesso nucleo di dodici famiglie, utilizza il 10% delle strade, dei cavi e delle tubature richieste dal mio vecchio vicinato. Molti vanno a lavorare con i mezzi pubblici o in bicicletta o, al peggio, guidano per tratti che non superano kilometraggi a cifra singola. Le nostre posizioni sociali e politiche sono sufficientemente vicine da rendermi abbastanza sicuro che, se le cose dovessero andare per il peggio, potremmo cavarcela aiutandoci mutualmente.

Questo non è lo spazio per approfondire la questione se le città siano più sostenibili dell’attuale vita rurale americana ma, ogni volta che mi confronto con questo problema, gli indizi indicano come, probabilmente, l’impronta ecologica pro capite dei cittadini sia inferiore.

Nelle ultime due decadi milioni di persone hanno abbandonato le città. Molti di queste sono persone dalle possibilità limitate, trasferitesi a causa degli alti costi della vita cittadina. Sfortunatamente hanno portato con loro lo stile della città. I nostri vicini in campagna, nessuno escluso, avevano tagliato tutti gli alberi per sostituirli con prati. Molti hanno costruito case enormi grazie alle normative più permissive. Molti hanno messo abbaglianti impianti di illuminazione in giardino. Hanno comprato case, ATV, RV ed altri giocattoli succhia benzina. A differenza dei primi insediamenti rurali autosufficienti queste sono solo persone di città con enormi giardini. E ce ne sono a milioni.

I sociologi Jane Jacobs e Lewis Mumford hanno entrambi notato come, durante la Depressione ed in altri momenti di crisi, gli abitanti delle città se la sono cavata meglio di quelli nelle campagne. Le cause risiedono principalmente nelle forze che agiscono sul mercato e nella fisica di base. Poiché la stragrande maggioranza delle persone vivono nei centri urbani od in prossimità di questi nei periodi di scarsità la maggiore domanda, densità e potere economico delle città condiziona la direzione delle risorse verso quest’ultime. I grandi centri di distribuzione sono principalmente in aree urbane in modo da svuotare i camion prima che escano dai confini cittadini.

Durante la Depressione i contadini ebbero inizialmente il vantaggio dell’essere in grado di auto prodursi il cibo. Ma esaurirono velocemente le altre risorse: il carbone per far funzionare le forge con cui riparare i mezzi, i fertilizzanti, le medicine, i vestiti e quasi qualsiasi altro bene non alimentare. Senza di questi non erano in grado di produrre cibo. I contadini che riuscirono ad aprire linee di mercato con le città sopravvissero. Quelli troppo lontani o troppo ostinati furono spazzati via con la terra del Kansas.

Competenze di Sopravvivenza

La situazione attuale degli agricoltori è peggiorata. Pochi producono il proprio cibo. L’agribusiness li ha resi quasi totalmente dipendenti dal comparto chimico e da altri input esterni. La maggior carenza della città rispetto alla campagna è la sua capacità di produrre cibo, ma la campagna manca di qualsiasi altra cosa – e molti prodotti arrivano proprio dalla città. Lasciando da parte per un momento l’aspetto, seppur fondamentale, della coesione sociale e politica, la necessità prima per le città, nel caso di una crisi legata al Peak-oil, è di imparare a produrre cibo. Per chi vive in campagna ci sarà bisogno di produrre qualsiasi altro bene essenziale ma, visto che molte persone sono solo cittadini trapiantati senza competenze di agricoltura o quant’altro, dotati dell’isolamento classico che rende inutile (per ora) apprendere il concetto di coesione sociale, la loro sopravvivenza è messa ancora più in dubbio. Se dovesse capitare una catastrofe la città potranno essere luoghi difficili ma temo che le campagne potrebbero essere anche peggio.

Uno dei principi della permacultura è quello di progettare per il disastro. Mentre teneva una lezione sull’incendio che distrusse la sua casa presso la Lama Foundation, all’architetto Ben Haggard venne chiesto quale fosse stata la lezione che ne aveva appreso. “Pianificare per il disastro” rispose. “Quale che sia la catastrofe che ipoteticamente potrebbe colpire il vostro sito, fate conto che sia reale. Aperchè prima o poi lo sarà.”

Un’altra tecnica che si presenta nelle buone progettazioni ed è un’efficace sistema di gestione dei disastri è quello di collegarsi alle forze distruttive con meccanismi ed attitudini che possano trasformare queste energie distruttive in energie produttive o, al peggio, in forze innocue. Quando questi meccanismi di trasformazione sono assenti anche eventi apparentemente innocui posso avere conseguenze negative. Una leggera pioggerellina che cada su un suolo lasciato scoperto dilaverà il terreno fertile giù per i rigagnoli. Se il terreno fosse stato coperto da vegetazione la forza erosiva della pioggia sarebbe diventata una forza vitale la cui energia viene smorzata ed accolta dalle piante. Invece di scorrere via, l’acqua viene trattenuta dalle piante, immagazzinata per un lungo periodo per loro stesse e per gli esseri che vivono grazie od in mezzo a loro. Questo è uno dei segreti della natura: sapere come creare strutture e sistemi che trasformino venti gelati in brezze rinfrescanti, cambiare il sole cocente in zuccheri e tessuti viventi.

Ciò che la natura non fa, ma che gli uomini invece fanno spesso, è trattare enormi energie come nemici da essere sconfitti e distrutti. Quest’estate, mentre gli uragani flagellavano ripetutamente i Caraibi, proposte ridicole apparivano nelle colonne delle “lettere al direttore” dei quotidiani: costruiamo enormi ventilatori sulle coste della Florida per soffiare via le tempeste. Versiamo olio sulla superficie dell’oceano per rallentare le onde. E (inevitabilmente) perché non sparare un paio di atomiche nei perfidi uragani? (Sia che si tratti di rimpiazzare il canale di Panama o liberarsi di Saddam, pare che qualcuno debba sempre promuovere l’opzione “bomba atomica”)

Comprensione dei Settori

Lo strumento concettuale offerto dalla permacultura in questi casi è analizzare le grandi forze come energie settoriali: influenze esterne al sito, fuori dal controllo del progettista. Noi ci confrontiamo con le energie settoriali progettando sistemi o collocando elementi che deflettano, assorbano o raccolgano queste forze, o gli permettano di transitare indisturbate. Questo è il sistema utilizzato dalla natura e come viene fatto, come al solito, ci può insegnare importanti lezioni.

Quando un’ecosistema matura , la sua biomassa e complessità aumentano. L’ecologista Ramon Margalef nel suo importantissimo scritto del 1963 “Di alcuni Principi Unificanti in Ecologia” (American Naturalist 97:357-374), suggerisce di pensare alla biomassa come a “una preservatrice dell’organizzazione, qualcosa di proporzionale all’influenza dei futuri fattori a cui può essere assoggettato un attuale eco-sistema”. In altre parole possiamo pensare alla biomassa, alla complessità e agli altri indicatori di maturità non solo come a metri di analisi della resilienza di un sistema ma coma ad una forma di consapevolezza. Questo perché mentre un’ecosistema matura, le natura e quantità delle conseguenze di stravolgimenti ambientali come tempeste o siccità dipendono più dalla ricchezza dell’ecosistema in oggetto che dalla natura dello stravolgimento stesso. La siccità che può far seccare un prato non intacca minimamente una vecchia foresta – la foresta ha imparato a gestire la siccità. Ha sviluppato una struttura, dei cicli e dei modelli in grado di convertire quasi tutte le influenze esterne in ulteriore foresta e di proteggere i cicli chiave nei periodi più difficili. La foresta è diventata saggia.

La Natura utilizza due strumenti principali per ottenere questa protezione contro le catastrofi. La prima è la diversità nello spazio – in dimensione, forma, modelli fisici e composizione. Se tutti i pezzi di un sistema sono sulla stessa dimensione di scala fisica – stesse dimensioni o stessa mappa genetica per fare un paio di esempi – una perturbazione che avvenga su quel piano di scala sarà in grado di spazzare via l’intero sistema. La diversità in scala genera protezione. Quando un uragano colpisce un campeggio i camper vengono spazzati via ma i batteri, i topi e gli elementi di diversa dimensione sfuggono alla distruzione. Un invasione di gatti, d’altro canto, colpirà sulla scala dei topi lasciando camper e batteri illesi. Gli ecosistemi maturi dispongono di una tale diversità che qualsiasi catastrofe potrà spazzare gli elementi che vivono a quella particolare scala ma non distruggerà quasi mai l’intero sistema.

Il secondo strumento di protezione di un ecosistema maturo è la diversità nel tempo – nella frequenza, nel rateo e nella tempistica. Gli arbusti del sottobosco tendono a mettere le foglie primaverili in anticipo rispetto agli alberi ad alto fusto, questo permette agli arbusti di produrre un’abbondanza di foglie. Quando gli alberi si saranno coperti di foglie gli arbusti avranno già sviluppato una superficie fotosintetica sufficiente per accumulare energia anche nella penombra del sottobosco. Un altro esempio classico di diversità nel tempo è il ciclo di schiusa delle uova di locusta. Programmate per dischiudersi ad un intervallo di anni che siano numeri primo come 13 o 17 frustrano predatori il cui ciclo di riproduzione richieda una maggiore predicibilità dei flussi di approvvigionamento alimentare.

I progettisti in permacultura utilizzano approcci simili per confrontarsi con i disastri. Invece di utilizzare sbarramenti in cemento o altre tattiche da forza bruta per affrontare le inondazioni, noi creiamo palizzate che possano piegarsi, come le canne, con l’avanzare dell’acqua e che possano essere facilmente rimesse al loro posto quando questa sia defluita. Invece di tagliare enormi strisce di terra battuta sul fianco della collina la Lama Foundation a collocato strade, swales e coltivazioni in un sistema tagliafuoco multifunzionale. Quando gli effetti dei monsoni arrivano a Tucson invece di stare a guardare i torrenti di acqua che si infilano negli scarichi dei tombini, Brad Lancaster raccoglie l’acqua con un intelligente sistema di canali che conducona a bacini pacciamati dove coltiva alberi da frutta. Tutti questo esempi sono spiegati nel dettaglio in Permaculture Activist #54 (Novembre, 2004).

Osservando la consapevolezza della natura, i permacultori ne seguono gli insegnamenti ed utilizzano i modelli, le successioni, i confini e le cicliche opportunità di conversione di grandi impulsi energetici in fluidi generatori di strutture, raccolto e flusso di nutrienti. La progettazione in permacultura investiga la natura di alcuni di questi “grandi impulsi” per mostrare come possano insegnarci ad usare la loro energia, con uno stile simile all’aikido, per trarne beneficio per noi e l’ecosistema in generale.

Questo Articolo è apparso originariamente con il titolo “Progettare oltre il disastro”, un’editoriale per la rivista Permaculture Activist #54, Novembre 2004
Toby Hemenway è un formatore in permacultura ed autore. Il suo ultimo libro è “Gaias’s Garden: A Guide to Home-Scale Permaculture”.

14
Ago
09

Rane Bollite, api e Landscape amnesia

Wasserfrosch

Dov’è finito l’orto?

E i manuali di fai da te estremo?

Dove gli interminabili pipponi sulla biologia del suolo e la necessità di smettere di rivoltare zolle di terra , dove le bucoliche narrazioni di un (presto ma non troppo) quarantenne alle prese con la sua nuova vita agreste, dove gli esperimenti di sussistenza, dove i brutali scontri con l’ottuagenaria vicina di casa… ma soprattutto, dove gli appunti di Emilia o novità illuminanti sul biochar?

Persi di fronte ad un paio di nuclei di api.

Perché?
Non so.
Forse perché la nuova vita agreste non è più tanto nuova e si sta cercando un “salto di qualità”.

Forse perché traslare i concetti, spostarli e ritrovarli in altri contesti, magari, li rende più chiari. Magari può riportarli a quella lucentezza che avrebbero dovuto avere in origine.

Le rane.
Friedrich Goltzun tot di eoni fa fece uno “scellerato” esperimento:
Primo – prendi una rana
Secondo – asportale il cervello
Terzo – (pensavi che fosse sufficiente come schifezza?) mettila in una pentola di acqua fredda
Quarto – metti la pentola sul fuoco e alza lentamente, ma inesorabilmente, la temperatura fino a portare l’acqua ad ebollizione
Conclusioni – la rana rimane lì e si lascia bollire non percependo il cambiamento di temperatura, aggiungendo un po’ di aromi, probabilmente, il buon Goltz sarebbe riuscito ad ottenere la versione barocca di un brodo di rana.

Ignoro il perché perdere tempo con un’attività simile, ma gli scienziati sono strani (e un po’ perversi): pare che uno abbia passato buona parte della sua vita a tagliare la coda ai gatti sperando di farli nascere senza… ma poi Darwin lo superò a sinistra e, probabilmente, lui finì a lavare i boccali in qualche pub di Southampton…

In ogni caso, l’ardito esperimento di Herr Goltz venne ripescato e riadattato dalla letteratura anglosassone fino a farlo divenire metafora di un peculiare atteggiamento sociale: se i cambiamenti sono così lenti da non essere percepiti, le “rane” si fanno bollire nel loro brodo.
Per alzare un minimo lo spirito letterario di questo blog si potrebbe citare, come esempio di letteratura da “rana bollita” la poesia “prima vennero…” sull’ascesa del nazismo (anche se così andiamo probabilmente troppo in alto).

Si, va bene, ma che c’entrano le rane, io sto aspettando i prossimi appunti di Emilia.

Bene, probabilmente non li vedrete mai se non nella loro veste originale che trovate qui.

Secondo Jared Diamond (sempre sia lodato, soprattutto per alcuni articoli che ha scritto a proposito delle macchine da scrivere) gli abitanti dell’Isola di Pasqua si comportarono come le rane.

Avete presente l’Isola di Pasqua?
Si, quella con i testoni di pietra. Quella spersa nel bel mezzo dell’Oceano. Quella che sembra brucata dalle capre da un miliardo di anni. No, non quella del flop mostruoso di Kevin Kostner. Quella vera.
Secondo Diamond (a dire il vero secondo un suo amico che gli ha dato l’idea mentre faceva degli studi sullo scoglio oceanico) gli abitanti dell’Isola di Pasqua non si resero conto di cosa stavano facendo fino all’ultimo momento.
Capiamoci, sei già uno che ha avuto la fortuna di arrivare su un isola nel bel mezzo del nulla. La colonizzi, ti stabilisci per benino, decidi di costruire degli enormi testoni di pietra per ammazzare il tempo e, mentre ti dedichi a queste amene attività, piano piano inizi ad abbattere uno dopo l’altro tutti gli alberi dell’isola.
Un giorno, sei lì che stai segando una palma che sicuramente ti servirà a qualcosa di indispensabile, tipo una libreria con incasso per la testa di pietra in scala 100:1 che segna il tempo (azzurro-pioggia, rosa-bel tempo) o per realizzare finalmente quel soppalchino per riporci la collezione di scalpelli intarsiati a mano dal nonno e… ops!

Era l’ultima… fine delle palme, restano le teste
(forse il loro significato è proprio quello: segnalare a chiunque si avvicini che quella è un’isola di teste di… pietra)

Landscape Amnesia.
Così viene definita la sindrome che colse gli isolani.
Quando i cambiamenti nel panorama sono talmente lenti che non possono essere tramandati da una generazione a quella successiva ed improvvisamente… puff! Il bosco non c’è più, la montagna non c’è più, non ci sono più i ghiacciai e, sotto casa, ti trovi il più largo e profondo baratro erosivo che tu abbia mai visto (ma in realtà non l’hai mai visto fino a quando non hanno iniziato ad incrinarsi le piastrelle del bagno, un gres magnifico, nero, opaco).
Una cosa simile successe negli USA con la Dust Bowl. Quando si resero conto di ciò che avevano fatto nella Corn Belt ormai avevano mandato in orbita ettari ed ettari di terreno coltivabile. Non c’era niente di sbagliato in ciò che facevano, era il progresso, bisognava produrre cibo, non poteva essere sbagliato, s’era sempre fatto così (non è vero… ma ci credevano)… Una cosa simile sta succedendo con i terreni coltivabili dell’alveo del Po, dal Piemonte all’Emilia e più in generale con i terreni coltivabili Europei.

Peak Oil.
E’ bello, è interessante, inizia a fare notizia.
Peak Soil.
Non gliene frega niente a nessuno. (o quasi)
E’ buffo, è come se ci preoccupassimo per il frigo che rischia di non funzionare più quando, tanto, non c’è più niente da metterci dentro (a parte una riproduzione di testa dell’isola di pasqua segnatempo)

Stai abusando del nostro tempo e della nostra pazienza… le api?

Le api.
Le api sono un sistema accelerato.
Nessuno ha fatto niente di male alle api. Si è solo cercato di razionalizzare il sistema. Di rendere le lavorazioni più semplici, più produttive.
In poco più di un centinaio di anni le api, un organismo che ha qualche migliaio di anni in più degli esseri umani, sono perennemente a rischio. Darwin, ovunque esso sia, sta ridendo allegramente, insieme ad un branco di primati non evoluti, dimostrando che le sue teorie erano corrette: la varroa, dopo anni di trattamenti chimici sconsiderati si è “evoluta” meritando l’appellativo destructor.
Osservate l’ironia della “sorte”: da una parte si ibridano le api per ottenere nuclei sempre più produttivi e docili (delle piccolissime mucche alate a strisce) mentre dall’altra si agisce selezionando involontariamente parassiti e patogeni sempre più resistenti…

In agricoltura, nel sistema di produzione alimentare, questi meccanismi sono più lenti e complessi. più difficili da analizzare e rappresentare.
Con le api (ahimè) è più semplice, i tempi sono più rapidi e l’amnesia meno incalzante.

Voi non sentite l’acqua che inizia a scaldarsi?

24
Ott
08

i manuali del giovine autarchico n°13

Crea non pochi problemi l’essersi creati un blog a “rubriche”, a differenza di chi si è mantenuto ampi spazi di creatività nei titoli, io mi trovo spesso ad incastrare contenuti in contenitori non sempre adeguati.
Questo è uno di quei casi.

Il seguente non è esattamente un manuale… vi troverete delle istruzioni, ma non per realizzare un prodotto concreto. Niente macchina spara fagioli o gasometro illegale a cacca di gallina.
Niente “magia da manualità”.

Troverete invece degli spunti, delle riflessioni e degli strumenti sulla progettazione in permacultura per l’ambiente urbano e suburbano con particolare attenzione alle risorse energetiche ed ai combustibili fossili (do you know Peak Oil?).
L’articolo è di Bart Anderson co-direttore di Energy Bullettin ed è apparso (tra gli altri) su Permaculture Activist.
La pessima traduzione è, ovviamente, mia.

Progettazione per zone e settori in ambiente urbano di Bart Anderson

Un grazie ai ragazzi del network Transizione per l’involontario stimolo a leggere un’articolo che da un sacco di tempo faceva la muffa in un angolo del computer… ma tu guarda ad essere pelandroni!

05
Set
08

Finestra sulla realtà degli altri n°13

Ho già parlato di questa signorina e della sua folle idea di raccogliere in 52 articoli suggerimenti e consigli per il post-catastrofe. Ora si è data anche ai video!
Dedicato al nuovo businness dal volto ecologico.

To blog52: don’t worry if you can’t understand 😉 It’s just an introduction to your slideshow and a cheers for all the green businnessman. I’m waiting for them after the big C.

09
Lug
08

finestra sulla realtà degli altri n°9

Facciamo un po’ di attualità. Così, perchè c’è il sole, e uno può anche deprimersi con la “rete di sicurezza” del poter uscire ed andare a farsi un giro.

Facciamo due o tre collegamenti con la pinzatrice ed il nastro adesivo.

Il Pakistan ha benzina per una decina di giorni e petrolio per un paio di settimane poi: BASTA
Il Messico deve razionarle e le Isole Marshall ad agosto rimarranno senza elettricità (via Blogeko)

Le conseguenze pratiche dei cambiamenti climatici (e a mio modesto parere: della crisi petrolifera) secondo uno studio sugli andamenti delle guerre civili (via Freakonomics)

E quindi, probabilmente a ragione Chinaski

…e, d’altro canto, se son quaggiù un po’ è anche perchè sono convinto che tra un po’ si va in vacca…

23
Mag
08

finestra sulla realtà degli altri n°6

Questo è molto carino! Abbiamo superato la soglia psicologica del costo del petrolio (per quanto una soglia psicologica a 135$ sia da sadomasochismo e perversione, a me faceva male già ad 80$…) quindi: PREPARATEVI! Blog52: una signora americana decide di scrivere, in maniera semiseria, un post alla settimana per tutto il 2008 con trucchi per sopravvivere alla post catastrofe… appunto 52 posts…

Tra i consigli utili aggiungere lo stamparsi su materiale ignifugo tutta l’opera omnia di Calvin e Hobbes (grazie a cannella), qui la pagina per il download.




L’ orto di carta

Diario di bordo ad aggiornamento casuale e saltuario di un cialtrone nell'orto... giocando con il fango, la permacultura, l'agricoltura sinergica in compagnia di William Cobbett, John Seymour, Fukuoka e Kropotkin.

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Troverò altri sistemi di finanziamento occulto…

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