Posts Tagged ‘alimentazione

07
Feb
11

Outing

PREFAZIONE:
Il portatile è ancora in coma farmacologico ed attente operazioni di chirurgia cibernetica stanno cercando di estrarre più dati possibili dal suo cervelletto di 0 e 1.
Fortunatamente esistono gli amici con i “muletti” nascosti negli armadi e disposti a prestarli a tempo indeterminato.
Questa prefazione è per ringraziare Marilena.
Voi, invece, saprete con chi lamentarvi per questo interminabile e scompostissimo post privo di qualsiasi immagine… con me 🙂
Che si vada a cominciare!

OUTING
(attenti alle note a piè di pagina… potete anche leggerlo off-line. In fondo dovrebbe anche esserci l’iconcina per stamparselo ma se lo salvate come file non avrò un ramo di pioppo sulla coscienza)

Dopo 6 anni di sottili sotterfugi.
Di bassi espedienti e di mal celate propensioni, lo ammetto.
Mi auto impongo un’etichetta.
Mi schiero.
Sono un permacultore.
Non insegno Permacultura ma la pratico.*

Perché? Perché la permacultura è uno strumento di progettazione, è “un sistema per combinare concetti, materiali e strategie in modelli che operino a beneficio della vita in tutte le sue forme” (Bill Mollison, A Designer’s Manual, Tagari pub. 1988)
Non una fede.
Non una politica.
Ma un sistema progettuale che attinge ad un bagaglio infinito di tecniche. Una forma di architettura i cui modelli risiedono negli ambienti naturali.

Leggere Fukuoka e trovarsi a dare la caccia ad enormi quantitativi di trifoglio bianco o ad una fantomatica argilla rossa in polvere sperando di averne un feedback (resa) è fede non tecnica.
Spesso mi trovo ad insegnare in corsi residenziali di 5 giorni i principi e le tecniche dell’agricoltura sinergica di Emilia Hazelip perché il sistema che ho sperimentato ed approfondito maggiormente e che, nella mia esperienza personale, può essere uno strumento fondamentale per avviare processi di autoapprendimento e di analisi consapevole.
Ma è una tecnica, non è una fede.
Emilia era una persona eccezionale ma il culto della persona e delle sue idee è una cosa, la tecnica di progettazione o gestione delle coltivazioni, un’altra.
Ci sono situazioni in cui probabilmente utilizzerei altre tecniche per ottenere il duplice risultato di avere una resa che contemporaneamente soddisfi i miei bisogni e quelli di un ambiente naturale da supportare e con cui integrarsi. Bisogni che andranno ovviamente mediati e bilanciati con quelli del contesto.
Questo ci riporta al concetto di “beneficio della vita in tutte le sue forme”. Noi compresi. La biodiversità naturale e le sue (nostre) risorse…

Quindi. Io sono un permacultore.
E’ in quest’ottica che stiamo progettando la nostra vita ed il terreno in cui ci andremo ad insediare.

Di tanto in tanto, tra i commenti di questo delirante contenitore di parole se ne incastrano alcuni che richiederebbero enciclopedie intere per poterli approfondire in maniera adeguata. [Qui Davide, Qui Elena
In entrambi i casi, su scale diverse, viene sollevata la problematicità di un certo tipo di sviluppo e di pratica in un contesto “tradizionale”. Tradotto: “Si, si, bello… ma come ci campi? Ci stiamo a provare tutti…”
Non esistono risposte standard.
Esistono i progetti e come questi vengono elaborati.

Uno dei focus principali della progettazione è la “resa” (yeld) della progettazione stessa.
In un piano di fattibilità da economista standard la “resa” sarebbe un dato meramente numerico basato su un “core business” o su un prodotto specifico. In un piano di fattibilità in permacultura la “resa” assume un significato infinitamente più ampio e più di difficile definizione (molte di queste rese non è possibile analizzarle se non con strumenti di analisi estremamente sofisticati). Se fossi sicuro di non essere mal interpretato direi che la resa è di “qualità olistica”. Ci saranno delle rese per me, delle rese per l’ambiente naturale e per sostenere la comunità – in tutti questi giri di “rese” aiuta molto crearsi delle mappe mentali simili a quelle di Odum sostituendo “rese” a “energia”.
Se non riesco a coprire tutto questo bagaglio di bisogni il sistema non sta in piedi. La coperta, se si sbaglia la progettazione, risulta immediatamente troppo corta.

L’agricoltura “tradizionale” tende a concentrarsi sulla resa economica – dato drogato dagli input degli “incentivi” all’agricoltura – a spese dell’ambiente e del contesto sociale (vedi uova alla diossina e varie forme monopolistiche).
L’agricoltura “alternativa” tende a concentrarsi sulla resa del contesto sociale (siamo tutti convinti di salvare il mondo) e, a volte, onestamente, a quella dell’ambiente. Per sostenere la resa economica rimane solo da appoggiarsi a sovrastrutture organizzative accessorie che appesantiscono la progettazione, spesso la deviano, più facilmente ne drenano le energie inficiandone ulteriormente le rese. Anche quelle che coinvolgono il contesto sociale.

Ci sono dei parametri di scala che vanno valutati in fase di progettazione, il rischio è “l’insostenibile sostenibilità” di una tecnica che diventa fede, politica, ideologia o, nei casi peggiori, green-business. Escluso l’ultimo, tutti questi elementi positivi sono, a mio parere, scontati in una progettazione in permacultura. Talmente scontati da essere trattati in maniera oggettiva e tecnica. Come un tavolo.
Il tavolo c’è, conosco le sue funzioni, i suoi impieghi, i suoi limiti, com’è fatto. Non ho bisogno di gravitarci intorno tutto il tempo o di dedicargli chissà quali attenzioni. So che ci mangerò sopra, non ho bisogno di osannarlo o decantarne universalmente le qualità ogni volta che ci appoggio su un piatto. E’ un tavolo, sono fortunato ad averlo.
Questo dovrebbe valere per qualsiasi “credo”.

Toby Hemenwey (formatore e progettista in permacultura autore di “Gaia’s Garden” – il libro che avreste voluto leggere al posto di “Introduzione alla Permacultura”. Cosa che avrebbe evitato a centinaia di persone di dare la caccia al Tagasaste o di ipotizzare lo sfondamento del soffitto dell’inquilino del piano di sotto per creare una doccia-serra dal design giapponese per il recupero dell’acqua) ha scritto un’interessante articolo sulla sostenibilità urbana opposta alla sostenibilità rurale e sulla forza e duttilità delle tecniche di progettazione in permacultura.
L’ho anche tradotto (colpa di Cristiano) ma è rimasto intrappolato nel mio portatile attualmente in coma farmacologico.**

Esistono centinaia di realtà “alternative”, progettate secondo parametri non convenzionali, in Italia. Un universo frammentato, multicolore. Si pensi a realtà storiche come Bagnaia, Urupia, Ontignano, Alcatraz, Cascina Santa Brea, il Bianconiglio, Zebra Farm, il Grembo, a singoli come Fabio Pinzi o a situazioni più “informali” come gli Elfi. Ci sono, esistono.
Funzionano? Si, no, chissenefrega. Io sono contento che esistano.
Credo che chiunque sia entrato in contatto con queste realtà se ne sia fatto un’idea personale ma non è questo lo spazio per analizzare la questione.

Quello che io trovo fondamentale per la sostenibilità di un’impresa sostenibile (scusate il bisticcio) sia il rifarsi ai patterns, ai modelli sia naturali – per ciò che riguarda gli aspetti ecologici e culturali – sia a quelli sociali ed economici. Le realtà sopracitate determinano dei modelli di riferimento analizzabili. Nessuno di noi inventerà mai più l’acqua calda…

Quando il problema è di carattere gestionale-economico, probabilmente l’errore è in una lettura di questi modelli o nell’adozione di modelli esistenti “tradizionali” non integrabili in una progettazione che ha basi, obiettivi e origini completamente diverse.
(Il motivo per cui Odum riuscì a dimostrare la maggior “resa” di un ambiente naturale rispetto ad uno coltivato fu la modifica dei sistemi di analisi di “bilancio”)

Il problema è che la progettazione si gioca su linee di confine molto nebulose.
Pensiamo ai pannelli fotovoltaici: Energia pulita “verde”, una possibilità di indipendenza e resilienza energetica. Ma i costi, la resa, l’impronta ecologica in fase di produzione e la loro applicazione su quali schemi di modello si muovono? La loro applicazione progettuale ha sempre un senso? O potrei ottenere un miglior impiego “permaculturale” del mare di energia che il sole ci riversa addosso raccogliendola e conservandola in altri modi?
Un motorino di nuova generazione inquina meno di uno vecchio, ma se io prolungo la vita di quello vecchio non evito che si debba costruire un motorino nuovo?
Lo stesso discorso è applicabile a tutte le altre energie che devono entrare nel nostro sistema (soldi compresi… che pur sempre energia sono).

La permacultura nasce in Australia dove, creare dal nulla una collina o un invaso d’acqua di 1000mq è cosina da nulla in un progetto più ampio di riforestazione e biorimediazione di una proprietà che ha estensioni territoriali simili a quelli di una provincia italiana.
Ma qui, appunto, siamo in Italia e i modelli sono in scala. Ma non solo. Nell’individuazione dei modelli noi abbiamo un bagaglio storico-culturale che, se da una parte è vincolo, dall’altra può essere un’enorme risorsa.

Io vedo una serie di problemi collegati allo sviluppo e alla gestione di progetti di sostenibilità energetica*** alternativi.

Il primo è legato a forme di “abitudine mentale” collegabili a pattern disfunzionali.
Un esempio classico è, a fronte del desiderio di iniziare un’attività di tipo agricolo, tuffarsi immediatamente in uno scontro diretto con il sistema agricolo attuale coltivando cereali perché agricoltura=cereali. In realtà i bisogni e la sostenibilità agricola risiedono spesso nella riduzione della coltivazione cerealicola non nella sostituzione del sistema di coltivazione. Questo è un po’ la falsa illusione dell’agricoltura Biologica.

Il secondo è legato a forme di business “alternativo”. Il classico ragionamento del “faccio cose, vedo gente, organizzo dei corsi, chiamo i wwofers, faccio un campo di volontariato internazionale…”. Tutte attività preconfigurabili come “precariato sostenibile” su cui non si può sicuramente basare una modifica dei modelli socio-economici e la sostenibilità di un progetto. Se di sostenibilità stiamo parlando stiamo parlando anche di resilienza e di capacità di modifica al cambiamento, se per qualsiasi motivo ad un certo punto dovessero mancare i volontari o questi ci costassero un botto in pranzi e cene che fine farebbe la nostra sostenibilità? Lasciamo stare la questione corsi che con la crisi economica e la maggior parte della popolazione insediata in grandi centri urbani dovrebbe assumere caratteristiche assolutamente mirate ed accessorie.

Il terzo è legato ad una forma molto italiana di provincialismo. Vediamo e studiamo cose interessanti e di valore all’esterno e cerchiamo di replicarle qui da noi (cosa spesso valida) ma tendiamo a dimenticare la specificità delle scale e dei modelli. E’ notevole come questo succeda in maniera democraticamente trasversale tra le categorie ideologiche. Leggo Fukuoka e cerco di riprodurlo facendo finta che non esista l’inverno e che ci sia una stagione dei monsoni. Vedo i successi(?) degli OGM e cerco di introdurli in Italia senza considerare l’impatto su un’agricoltura di dimensioni medio-piccole ed un territorio assolutamente disomogeneo. L’importante è essere ideologicamente “hipe”. E questo ci porta al punto n° quattro.
Le persone che spesso agiscono questi progetti di cui anch’io faccio parte.
Siamo quasi tutti cresciuti negli anni ’80, la teoria del “contenitore” ci pervade. Creiamo vuoti da riempire, siamo compulsivi. Spesso le scelte che facciamo sono di rifiuto dei modelli esistenti ma stentiamo a crearne di nuovi cadendo spesso nell’emulazione di modelli già dismessi – come il fascino di una stolta autarchia – e, quando lo facciamo spesso tendiamo a cercare di ignorare il contesto che ci circonda o ci dissanguiamo, novelli Savonarola e Giovanne D’Arco autodafé, per combatterlo.

Buckminster Fuller sosteneva che per cambiare un modello non serve combatterlo, devi renderlo obsoleto.
Sono convinto che questa sia la chiave di lettura giusta. Ma per rendere obsoleto un modello bisogna comprenderlo a fondo e introdurre le persone al nuovo modello alternativo che deve rispondere, comunque, ai loro bisogni non solo alle loro ideologie.
La permacultura è in grado di creare modelli nuovi e migliori degli esistenti, più efficienti ed efficaci ma per farlo deve rimanere strettamente collegata ai modelli ed alle scale mettendo in rapporto le energie e le rese del territorio, selezionando quelle più resilienti e preservandole in cicli regenerativi.
I progetti vanno fatti considerando le energie del micro-territorio in cui ci si insedia. Gli ideali sono le lenti con cui analizziamo ed osserviamo la realtà, non sono la realtà. Un po’ la storia del dito e della luna…

Noi stiamo iniziando il nostro progetto.
Non sappiamo come andrà a finire o come si estenderà nel tempo (anche se i risultati negli spazi minimi ed instabili degli ultimi 6 anni sono incoraggianti). So che l’obbiettivo è dare alla nostra famiglia un’alta qualità della vita ed avvicinare il nostro ettaro di terra alla migliore approssimazione dell’Eden.
Non disponiamo di ricette salvifiche o funzionali possiamo solo dire che sono stati fondamentali diversi aspetti:
Né troppo terreno né troppo poco.
Non troppo lontano da centri abitati.
Tempi medio-lunghi per raggiungere una situazione di bilanciamento dinamico.
Semplificazione fiscale.
Capacità di produzione di beni di scambio con la rete locale.
E poi… c’è tutto l’aspetto filosofico, naturale, estetico ed etico ma, spesso, per realizzare un sogno bisogna dimenticarselo per poi riscoprirlo come sorpresa in ciò che si sta facendo.****

E, ragazzi, ricordatevi la scala ed i modelli!

Le Note a piè di pagina

* Se Tiziano Ferro fa notizia facendo coming out sulle sue preferenze di genere vorrà pur dire che l’outing si può fare anche sull’ovvio…

** Il mio laptop del 2004 ha deciso che 7 anni sono troppi e, per ora, ha l’encefalogramma piatto… sappiatelo… se avete fretta di contattarmi vi conviene chiamarmi direttamente. E perdonatemi se mi dimentico delle cose… sono nel suddetto laptop e le connessioni con posta ed internet sono seriamente ondivaghe ed incerte.

**** Sia chiaro che quando parlo di “rese”, “risorse” o “energie” ne parlo nel senso più ampio del termine (cibo, combustibili, elettricità, soldi, reti sociali…). E, per proprietà transitiva, tutto ciò che determina il nostro benessere in un sistema dotato di un bilanciamento dinamico. Mentre, per “bilanciamento dinamico” intendo una situazione in cui la sostenibilità reciproca dei vari attori è garantita dallo spostamento continuo del fulcro. Se il bilanciamento fosse determinato da vettori fissi, secondo le leggi della termodinamica, si arriverebbe ad una situazione di “morte termica”. Sembra assurdo ma capita… anche nelle relazioni tra le persone. Un esempio classico in natura è dato dalle foreste, finché sono giovani sovraproducono “energie”, allo stadio di maturità ciò che producono consumano arrivando ad uno “zero termico” che inizierà inevitabilmente un processo regressivo fino a non entrare nuovamente in una rigenerazione…

**** Anche se non sembra in questo articolo si parla di soldi ed ecologia. Economia ed ecologia hanno la stessa radice greca “oikos”, casa, ad indicare lo studio del modo in cui si gestiscono le attività della vita siano esse umane e finanziarie o vegetali, animali o biochimiche. Siamo seduti su uno sgabello le cui gambe sono tutte queste attività… non considerare una può voler dire trovarsi a gambe all’aria con una commozione celebrale durante un pranzo di gala.

17
Lug
10

Food Express

Qui risponde la segreteria telefonica dell’allegra famiglia di cialtroni.
In questo momento, sono impegnati a capire quali siano le migliori nicchie burocratiche in cui nascondere le vere intenzioni di un progetto di esistenza sostenibile che non si può permettere, economicamente, i pannelli fotovoltaici, soluzioni avveniristiche in bioedilizia ed altri gadget autorizzati dalla green-economy.
Fortunatamente, alcuni amici, vi intratterranno nell’attesa svolgendo il duplice compito di elevare il livello del Blog e dare contenuto all’insipienza del suo attuale gestore…

Food Express
8 documentari d’ascolto, 8 viaggi che tentano rocambolescamente di riportare a casa 8 cibi che arrivano dall’estero e scoprire che strada fanno e quali luoghi, musiche e tradizioni attraversano prima di arrivare al supermercato sotto casa. Scritto, diretto e montato da Elena Pugliese

Elena è un’ottima amica ed un’ottima autrice, grazie ad uno di quegli accordi rocamboleschi che paiono essere alla base di un’esistenza felice e spensierata, OrtodiCarta ospita sul server (frutto di un altro fortuito baratto) gli archivi di FoodExpress ed Elena ci permette di trasmetterveli.

Mentre ascoltate, o subito dopo, o subito prima, o quando vi pare, potete avere l’ennesimo assaggio dell’insipienza del gestore di questo blog andando a leggervi l’intervista pubblicata sul blog Agricoltura-Biologica

29
Giu
10

Ogni resistenza è inutile; Sarete assimilati.

Ok. Sto esagerando.
Sotto il lavandino ho un barile di Bokashi in elaborazione. Nel frigo, una pasta madre di un centinaio di anni che ha cercato più volte di vendicarsi della mia noncuranza nella nobile arte della panificazione. Sullo stesso ripiano un barattolo di Kéfir sta aspettando il suo turno per essere impiegato in abominevoli sperimentazioni (a mio parere potrebbe essere un ottimo starter per il suddetto Bokashi… ). Poco lontano, sulla vecchia macchina da cucire, la Kombucha galleggia serena in compagnia delle sue 15 generazioni precedenti… vuoi mica buttarle?

Un po’ per questo, un po’ visto che i commenti al post precedente mi ricordano che in primis qui si tratta di mangiare e di convincere la gente ad assumersi la responsabilità di ciò che mangiano (vedi alla voce: autoprocacciamento).
Ho deciso di organizzare questo con RIZOMI….

AGGIORNAMENTO:
Si parla di cibo, di come si mangia, di come si consuma, di stili alimentari… a me è venuta fame…

21
Gen
10

It’s all about food, baby!

DISCLAIMER: Questo post è stato scritto da “lui”, uno dei miei fratelli gemelli segreti che tengo nell’armadio. Ringrazio anche madame per la sua opera di doppelgänger-sitter 😉

Ti siedi a tavola. Piatto, forchetta, coltello, il bicchiere già pieno di birra o vino o, se come me sei nel cono d’ombra dell’intolleranza all’alcol, acqua. Il pane, un paio di grissini.
Si mangia. Finito di mangiare si ripongono i piatti nel lavello o nella lavastoviglie e via! Pronto per un altro giro di danza. Passa qualche ora e sei di nuovo li con la bocca piena.
Vai a dormire, ti svegli. Bocca piena.
Evidentemente, come tutte quelle azioni che svolgiamo in maniera ripetitiva, il mangiare è diventato un riflesso incondizionato, non fosse che lascia i piatti sporchi e spesso si deve cucinare. Ma d’altronde, anche il risultato finale della nostra attività alimentare richiede un certo decoro ed una certa igiene.
Ora. Noi facciamo finta di non saperlo. Siamo in grado di comprendere solo fino ad un certo punto la complessità dei sistemi: ho li riduciamo chiudendoli nelle alte sponde della Scienza (una a caso) o tendiamo a farne un mischione buttandola in campo teologico (filosofico se siete atei). Se stai nel mezzo, fai chiacchiere da bar.
E che chiacchiere da bar siano! Da buon ex-barman o visto nascere cose grandiose davanti ad un bancone.
Dicevamo: “facciamo finta di non saperlo” perché in realtà, scandalizzarsi per i fatti di Rosarno, può essere limitante nel paese che ha fatto del pomodoro il suo emblema nel mondo. Il pomodoro. Il pomodoro è costato la vita a centinaia di migliaia di Indios e costa, tutt’ora, la vita a centinaia di migliaia di persone costrette tutti gli anni a raccoglierne quintali su quintali al suono del mantra del precario “fin qui tutto bene”. Ma cosa vuoi, non mangiare la pasta di Gragnano© con il pomodoro di S. Marzano? Sarebbe stupido.
Ho deciso: mi coltivo i pomodori, così ho sulla coscienza solo gli Indios che tanto è andato in prescrizione e Colombo m’è sempre stato un po’ sul culo. Già, bravo, e la pasta? Cosa faccio, faccio finta di non saper che arriva dalle coltivazioni igegnerate da Norman Borlaug? Coltivazioni che richiedono quintali di concimazioni e migliaia di litri d’acqua?
Gli OGM, mi dicono, possono essere una soluzione. Grandi concentrazioni di nutrienti e vitamine in quantità inferiori di alimenti, nessun problema o quasi di parassiti, poche necessità di concimazioni, volendo anche un uso minore di combustibili fossili. Si, gli OGM. Però non è che diano tutta questa affidabilità. In molti casi hanno fallito miseramente e poi non è prevedibile l’effetto che possono avere in generale sia sulla biologia umana che sulla biosfera. Poi, tra qualche anno, scopro che sono un “pacco” come la Green Revolution e mi rimane di nuovo il boccone di traverso. No, niente OGM. E cosa mangio allora…
McCandless. Mi trasferisco a vivere sul “lato selvatico” e inizio a brucare tutta la verdura che trovo in giro, se proprio sono messo male magari posso anche provare a cacciare una mini lepre o a pescare un pesce, anche se non credo che ne sarei realmente in grado. Ma poi, a me piace la pasta con il pomodoro. Mi piace la cioccolata con l’olio di palma che sta devastando la foresta del Borneo. No. Alla cioccolata posso rinunciare. Si, va bene, ma a me sta venendo di nuovo fame. Cerco una mediazione: compro solo prodotti certificati. Bio. Equo. Eco. Demeter. Stavo giusto pensando di accettare quel posto al distributore di benzina, a quel punto avrei i soldi per fare la spesa… ma poi, chi controlla il controllore?

Non mi stupisco che vi siano così tanti disturbi alimentari.
Mangiare è un lavoro incoerentemente di merda. Un po’ come vivere.

19
Dic
09

Non è un paese per vecchi

Io sono convinto che esista una memoria “fisica”. Una memoria non cosciente che ci riporta a movimenti, atteggiamenti e comportamenti dimenticati in maniera inconsapevole quando la situazione circostante ha a che fare con un determinato background culturale che ci appartiene.
Sto bestemmiando contro il traffico “dalle 9 alle 5 orario continuato” mixato con quello da shopping natalizio. Mentre guido in puro stile “passivo-aggressivo”, degno dei migliori anni della mia vita urbana.
Meta: il Teatro Colosseo per i Giovedì Scienza, relatrice della serata Chiara Tonelli, titolo della conferenza IL GIARDINO DELLE PIANTE “BIOFORTIFICATE”
Non è mio interesse andare a discutere i contenuti specifici e tecnici della relazione.
L’hanno fatto magistralmente persone più competenti (meristemi, trashfood e biodiversity).
La cosa che mi ha attirato in quel di Torino è stato più che altro il poter vedere, per la prima volta, qualcuno che promuove gli OGM.
Ora, capiamoci, non che mi aspettassi granché.
Il pubblico dei “Giovedì Scienza” è più o meno lo stesso di “Specchio dei tempi” de La Stampa*, anche come età media.
Ma è interessante come sia stata gestita la comunicazione anche e soprattutto tenuto conto dell’audience.

Prima regola:
Non nominare MAI gli ogm.
Corollario alla prima regola:
Il termine è: coltivazioni dal dna ricombinato
Eccezione alla prima regola:
Se sei costretta a nominare gli “innominabili” mescolali in un discorso di impollinazione aperta e selezione naturale. Sempre nel campo della genetica sei…

Seconda regola:
Sottolineare che una soluzione di ridistribuzione dei consumi è affare da politici, non da scienziati.
Corollario alla seconda regola:
Contare fino a venti prima di citare Norman Borlaugh e la Green revolution e di dire che il compito della ricerca è trovare soluzioni alla mal nutrizione del terzo mondo. La gente potrebbe notare che stai facendo politica.

Terza regola:
Utilizza slide in Inglese di cui la metà senza fonti. La gente potrebbe non credere che Tu sei il Sapere ma affidarsi ai dati che presenti.

Quarta regola:
La difesa della Green Revolution funziona ancora: chi è contrario vuole vedere morti milioni di bambini.

Quinta regola:
Utilizza fondi pubblici e/o privati per studiare un pomodoro che ha le stesse qualità di un succo di mora e lamentati del fatto che l’EU e i vincoli economici impediranno a questa genialità di entrare in commercio.
Corollario alla quinta regola:
Sottolinea il costo che possono avere i frutti di bosco, o il cavolo rosso, o le rape o i pomodori normali, nei negozi (ma ignora ogni altro sistema di approvvigionamento)

Sesta regola:
Sottolinea i costi e l’impossibilità dovuta a questi di alimentarsi in maniera sana (facendo finta di essere negli Stati Uniti dove il 13% degli adulti ed il 25% dei bambini mangiano grazie ai food stamps e quelli che non ne hanno fatto richiesta possono permettersi solo junk food) e offri come soluzione un pomodoro di cui non sai il prezzo che avrà sul mercato. Se te lo chiedono rispondi che sarà il prezzo di un pomodoro.
Corollario alla sesta regola:
Sei su un palco. Nessuno capirà la differenza tra una genetista ed un’economista.

Settima regola:
Quando sostieni che il motivo della mal nutrizione nei paesi africani è dovuto alla scelta fatta tra due tipi di mais e, loro, hanno scelto quello bianco, sottolinea l’aspetto scientifico della presenza di precursori di vitamina A in quello giallo, scartato. Magari nessuno si accorge che hai scaricato la responsabilità della fame nel terzo mondo sul fatto che sono ignoranti e distoglierai l’attenzione dalla domanda “ma come c’è arrivato il mais in Africa?”

Ottava regola:
Le biotecnologie sono fondamentali per un’agricoltura sostenibile. Cita l’incidenza dell’agricoltura sul Global Warming.
Assioma alla regola otto
o assioma della Green Revolution:

Dopo aver citato il premio Nobel per la pace 1970 Norman Borlaugh costruisci l’asse di sequenza temporale Rivoluzione Verde > Rivoluzione Biotech.
Ignora che buona parte dell’incidenza dell’agricoltura sul GW è data dalle pratiche della Rivoluzione Verde.

Nona regola:
Quando citi la soja con dna ricombinato in grado di fornire il quantitativo nutrizionale di 13000 salmoni in un solo ettaro di terra ometti che la soja è una delle prime cause di deforestazione.

Primo Principio di Gestione del Dibattito:
Se qualcuno prova ad introdurre argomentazioni di criticità puntagli una telecamera ed ingrandisci la sua faccia di 1000 volte su un maxischermo. Se non è Bruno Vespa si dimenticherà cosa voleva dire.

Secondo Principio di Gestione del Dibattito:
Procurati un presentatore che si offra volontario come cavia umana per la sperimentazione dei pomodori viola.

Alla fine dell’incontro un crocicchio di persone avvicina uno dei ragazzi che all’ingresso distribuivano volantini in cui si presentano le cultivar biofortificate come un mezzuccio da marketing per introdurre gli OGM ad un pubblico europeo “prevenuto”.
Un vecchietto visibilmente scocciato sta ripetendo al ragazzo che lui non ha provato la fame non può sapere.
Mi avvicino. Ascolto per un po’, poi do ragione al vecchietto. Gli chiedo quanti anni ha: 70.
Era un operaio FIAT, piemontese. La fame, a lui, l’hanno raccontata i suoi genitori.
Gli chiedo se i suoi genitori avevano un orto. Mi risponde di si, che anche lui ha un orto.
Gli chiedo se è un bell’orto. Mi risponde che vengono dei cavoli così.
Gli chiedo se vorrebbe coltivarci un pomodoro viola geneticamente modificato per farci un’insalata. Mi risponde di no che ‘ste diavolerie mica lo convincono.
Evito di fargli notare che stava martellando un’altra persona perché era contraria agli ogm.
Gli chiedo se lui darebbe da mangiare qualcosa che lui reputa una diavoleria alle popolazioni con problemi nutrizionali. Mi risponde di no. Gli chiedo se non sarebbe meglio studiare sistemi di redistribuzione della ricchezza più adeguati ed aiutare quelle popolazioni a sviluppare pratiche agricole legate alle specificità dell’ambiente in cui vivono implementando la ricerca su quelle pratiche piuttosto che nella produzione di verdure-medicine. Mi risponde di si.
Intorno a noi c’è un gruppetto di 8, 9 persone.
Sono stato scorretto ed approssimativo ma sono contento di non essere stato l’unico.

Prima regola del para*ulo
Chi è su un palco parla a 200 persone
Chi è sotto al massimo a 10
Corollario alla regola del para*ulo
La micro-destrutturazione delle conferenze può essere uno sport divertente

*A Torino, storicamente, La Stampa viene acquistata per la lettura dei necrologi e di “Specchio dei Tempi” (soprattutto se si ha una certa età) una sorta di angolo dei lettori dove la lamentazione grigia e noiosa dei torinesi viene fuori in tutto il suo Gozzaniano clamore (Gozzaniano clamore è un ossimoro). Da tempo è anche una fondazione benefica.

04
Feb
09

Global Garden – salvare il mondo una carota alla volta

Verso fine mese sarò a Monteviglio per assistere ad uno degli incontri organizzati da Cristiano ed il giorno seguente sarò da Daria e Marco con un po’ di amici a fare una chiaccherata su orti, cultura alimentare, ambiente e a definire esattamente quanti orti sono in grado di realizzare i famosi angeli sulla capocchia dello spillo.
(se qualcuno è li in zona può contattare i gentili ospiti…)

Nel frattempo, da letture come questa, produco testi come questo per i ragazzi di Terranauta.

11
Dic
08

L’Orto di Carta va a spasso

FINESTRA SULLA REALTA’ DEGLI ALTRI N°19

Esiste una lunga tradizione di ortolani-scrittori, si pensi alla produzione letteraria in fatto di libri ed articoli di personaggi come John Seymour o Ruth Stout… potevo evitarmi di infangare la loro memoria? Forse si…
In ogni caso la redazione di “Terranauta” mi ha onorato dando spazio ad un mio “pezzo”… sperando che non se ne pentano in fretta !

ps. – come se non bastasse, per aggiungere orrore all’orrore, si può vedere anche la mia faccia! 😉




L’ orto di carta

Diario di bordo ad aggiornamento casuale e saltuario di un cialtrone nell'orto... giocando con il fango, la permacultura, l'agricoltura sinergica in compagnia di William Cobbett, John Seymour, Fukuoka e Kropotkin.

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Parte della libreria di OrtodiCarta

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Troverò altri sistemi di finanziamento occulto…

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