Posts Tagged ‘agricoltura

22
Apr
11

Changes

Quasi 7 anni dall’inizio.
Se mi mettevo di buzzo buono potevo prendere un paio di lauree brevi. Sicuramente avrei avuto delle semplici collinette rispetto alle montagne di carta attuali e meno esperimenti falliti.
E invece, chi guarda verso il campo, vede un tipo allampanato, impunemente abbigliato come un orfano dei Mother Love Bone che insegue disperatamente periodi di semina e traccia piste di ife fungine.
In realtà, per ora, non è così facile vedermi.
Ogni tanto, si cambia.
Fa parte della natura delle cose.
Le piante migrano, i panda cercano disperatamente di estinguersi.

Si cambia. Ed in questi casi, i miei genitori, mi hanno insegnato che si deve chiedere scusa a chi si è deluso e ringraziare le persone da cui si è ricevuto materialmente ed emotivamente molto.
Tra le scuse spiccano quelle che vanno ai ragazzi della Transizione in Umbria dove avrei dovuto essere in uno dei prossimi weekend e che, invece, ho ignobilmente paccato per mille motivi – buoni per me ma non, giustamente, per loro. Scusatemi, potete consolarvi con l’idea che un cialtrone non ha dovuto attraversare mezza Italia, avrei sicuramente consumato più di ciò che vi avrei potuto dare.
Ma detto così sembra un epitaffio.
Rifo.

Non ho mai avuto intenzione né di diventare un autarchico né di diventare un commesso viaggiatore della sostenibilità e della neo-ruralità, tanto meno di aprire l’ennesimo Bed&Breakfast della formazione alle pratiche sostenibili.
Quello che volevo fare da grande era vivere bene.
Vivere bene vuol dire, nella mia accezione, sganciarsi dal sistema consuma-crepa, non cascare nella logica da terziario anni ’80 del “siamo tutti fornitori di servizi” (pessima abitudine su tutti i versanti della barricata) ed evitare la tendenza “squatter” del “ho finito i soldi, costruisco bonghe per svoltare il mese”. Ma, negli ultimi anni, ho abbondantemente spizzicato qua e là da tutte le tendenze.
Ora, è meglio se inizio a fare ciò che può veramente determinare il mio (e di altri) vivere bene.
Produrre.
Dimostrare attraverso la pratica un teorema.
La produzione di energia (nel senso più ampio ed estremo del termine) è uno “stile” fattibile anche su un fazzoletto di un ettaro e senza spolpare troppi liquami di dinosauri morti.
E quindi, cedo il passo.
Iosononicola ma non sarò più l’OrtodiCarta.
Ma detto così sembra l’epitaffio del blog.
Rifo.

Quasi 7 anni dall’inizio.
Non siamo più soli.
Le cose cambiano e, se si vuole e si accetta il confronto con la nobile arte della burocrazia (sofisticata forma di ju-jitsu socio-politico), in meglio.
Ma questa volta c’è da lavorare.
(Io non so esattamente cosa voglia dire… ma non siamo più soli: me lo spiegheranno)
Primo: costruire casa (la dolce vichinga che ho sposato sta imparando l’infallibile mossa delle sette stelle di Okuto)
Secondo: proseguire nella pianificazione delle successioni nel campo ed impostarle
Terzo: dare corpo e struttura ad OrtodiCarta che, da luogo dei miei “sbraghi sbilenchi” diventa soggetto collettivo – Il blog resta perchè è il mio spazio privato ma OrtodiCarta diventa un progetto fisico (e magari inizierà a godere di una sua comunicazione spontanea… ma, fortunatamente per il lato “istituzionale”, non me ne sto occupando io)
Quarto: dimostrare che una Fattoria di Transizione è possibile anche senza organizzare corsi di uncinetto cromoterapico, sfruttare 10.000 volontari o aprire un Bed&Breakfast (o facendo tutte queste cose ma in maniera assolutamente collaterale, casuale e involontaria).
Se di sostenibilità si parla… non vale bluffare. Poi, fate quel che vi pare. Io ho i prossimi 40 anni per dimostrare un teorema.
Ma un teorema devo dimostralo nella pratica e documentarne lo svolgimento.
Poi, rimango uno gran cialtrone e una delle cose che amo di più fare è raccontare in giro quello che faccio e sperimento ma per un po’ non mi muoverò più (appuntamenti già fissati a parte e a meno di ottime ragioni – soggettive – per paccare)
Ma sapete dove trovarci: Qui o .
Come sempre.

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

PS.- La prode ed abile compilatrice di codici sta febbrilmente lavorando sulla nuova finestra comunicativa… si accettano consigli e complimenti 😉

07
Feb
11

Outing

PREFAZIONE:
Il portatile è ancora in coma farmacologico ed attente operazioni di chirurgia cibernetica stanno cercando di estrarre più dati possibili dal suo cervelletto di 0 e 1.
Fortunatamente esistono gli amici con i “muletti” nascosti negli armadi e disposti a prestarli a tempo indeterminato.
Questa prefazione è per ringraziare Marilena.
Voi, invece, saprete con chi lamentarvi per questo interminabile e scompostissimo post privo di qualsiasi immagine… con me 🙂
Che si vada a cominciare!

OUTING
(attenti alle note a piè di pagina… potete anche leggerlo off-line. In fondo dovrebbe anche esserci l’iconcina per stamparselo ma se lo salvate come file non avrò un ramo di pioppo sulla coscienza)

Dopo 6 anni di sottili sotterfugi.
Di bassi espedienti e di mal celate propensioni, lo ammetto.
Mi auto impongo un’etichetta.
Mi schiero.
Sono un permacultore.
Non insegno Permacultura ma la pratico.*

Perché? Perché la permacultura è uno strumento di progettazione, è “un sistema per combinare concetti, materiali e strategie in modelli che operino a beneficio della vita in tutte le sue forme” (Bill Mollison, A Designer’s Manual, Tagari pub. 1988)
Non una fede.
Non una politica.
Ma un sistema progettuale che attinge ad un bagaglio infinito di tecniche. Una forma di architettura i cui modelli risiedono negli ambienti naturali.

Leggere Fukuoka e trovarsi a dare la caccia ad enormi quantitativi di trifoglio bianco o ad una fantomatica argilla rossa in polvere sperando di averne un feedback (resa) è fede non tecnica.
Spesso mi trovo ad insegnare in corsi residenziali di 5 giorni i principi e le tecniche dell’agricoltura sinergica di Emilia Hazelip perché il sistema che ho sperimentato ed approfondito maggiormente e che, nella mia esperienza personale, può essere uno strumento fondamentale per avviare processi di autoapprendimento e di analisi consapevole.
Ma è una tecnica, non è una fede.
Emilia era una persona eccezionale ma il culto della persona e delle sue idee è una cosa, la tecnica di progettazione o gestione delle coltivazioni, un’altra.
Ci sono situazioni in cui probabilmente utilizzerei altre tecniche per ottenere il duplice risultato di avere una resa che contemporaneamente soddisfi i miei bisogni e quelli di un ambiente naturale da supportare e con cui integrarsi. Bisogni che andranno ovviamente mediati e bilanciati con quelli del contesto.
Questo ci riporta al concetto di “beneficio della vita in tutte le sue forme”. Noi compresi. La biodiversità naturale e le sue (nostre) risorse…

Quindi. Io sono un permacultore.
E’ in quest’ottica che stiamo progettando la nostra vita ed il terreno in cui ci andremo ad insediare.

Di tanto in tanto, tra i commenti di questo delirante contenitore di parole se ne incastrano alcuni che richiederebbero enciclopedie intere per poterli approfondire in maniera adeguata. [Qui Davide, Qui Elena
In entrambi i casi, su scale diverse, viene sollevata la problematicità di un certo tipo di sviluppo e di pratica in un contesto “tradizionale”. Tradotto: “Si, si, bello… ma come ci campi? Ci stiamo a provare tutti…”
Non esistono risposte standard.
Esistono i progetti e come questi vengono elaborati.

Uno dei focus principali della progettazione è la “resa” (yeld) della progettazione stessa.
In un piano di fattibilità da economista standard la “resa” sarebbe un dato meramente numerico basato su un “core business” o su un prodotto specifico. In un piano di fattibilità in permacultura la “resa” assume un significato infinitamente più ampio e più di difficile definizione (molte di queste rese non è possibile analizzarle se non con strumenti di analisi estremamente sofisticati). Se fossi sicuro di non essere mal interpretato direi che la resa è di “qualità olistica”. Ci saranno delle rese per me, delle rese per l’ambiente naturale e per sostenere la comunità – in tutti questi giri di “rese” aiuta molto crearsi delle mappe mentali simili a quelle di Odum sostituendo “rese” a “energia”.
Se non riesco a coprire tutto questo bagaglio di bisogni il sistema non sta in piedi. La coperta, se si sbaglia la progettazione, risulta immediatamente troppo corta.

L’agricoltura “tradizionale” tende a concentrarsi sulla resa economica – dato drogato dagli input degli “incentivi” all’agricoltura – a spese dell’ambiente e del contesto sociale (vedi uova alla diossina e varie forme monopolistiche).
L’agricoltura “alternativa” tende a concentrarsi sulla resa del contesto sociale (siamo tutti convinti di salvare il mondo) e, a volte, onestamente, a quella dell’ambiente. Per sostenere la resa economica rimane solo da appoggiarsi a sovrastrutture organizzative accessorie che appesantiscono la progettazione, spesso la deviano, più facilmente ne drenano le energie inficiandone ulteriormente le rese. Anche quelle che coinvolgono il contesto sociale.

Ci sono dei parametri di scala che vanno valutati in fase di progettazione, il rischio è “l’insostenibile sostenibilità” di una tecnica che diventa fede, politica, ideologia o, nei casi peggiori, green-business. Escluso l’ultimo, tutti questi elementi positivi sono, a mio parere, scontati in una progettazione in permacultura. Talmente scontati da essere trattati in maniera oggettiva e tecnica. Come un tavolo.
Il tavolo c’è, conosco le sue funzioni, i suoi impieghi, i suoi limiti, com’è fatto. Non ho bisogno di gravitarci intorno tutto il tempo o di dedicargli chissà quali attenzioni. So che ci mangerò sopra, non ho bisogno di osannarlo o decantarne universalmente le qualità ogni volta che ci appoggio su un piatto. E’ un tavolo, sono fortunato ad averlo.
Questo dovrebbe valere per qualsiasi “credo”.

Toby Hemenwey (formatore e progettista in permacultura autore di “Gaia’s Garden” – il libro che avreste voluto leggere al posto di “Introduzione alla Permacultura”. Cosa che avrebbe evitato a centinaia di persone di dare la caccia al Tagasaste o di ipotizzare lo sfondamento del soffitto dell’inquilino del piano di sotto per creare una doccia-serra dal design giapponese per il recupero dell’acqua) ha scritto un’interessante articolo sulla sostenibilità urbana opposta alla sostenibilità rurale e sulla forza e duttilità delle tecniche di progettazione in permacultura.
L’ho anche tradotto (colpa di Cristiano) ma è rimasto intrappolato nel mio portatile attualmente in coma farmacologico.**

Esistono centinaia di realtà “alternative”, progettate secondo parametri non convenzionali, in Italia. Un universo frammentato, multicolore. Si pensi a realtà storiche come Bagnaia, Urupia, Ontignano, Alcatraz, Cascina Santa Brea, il Bianconiglio, Zebra Farm, il Grembo, a singoli come Fabio Pinzi o a situazioni più “informali” come gli Elfi. Ci sono, esistono.
Funzionano? Si, no, chissenefrega. Io sono contento che esistano.
Credo che chiunque sia entrato in contatto con queste realtà se ne sia fatto un’idea personale ma non è questo lo spazio per analizzare la questione.

Quello che io trovo fondamentale per la sostenibilità di un’impresa sostenibile (scusate il bisticcio) sia il rifarsi ai patterns, ai modelli sia naturali – per ciò che riguarda gli aspetti ecologici e culturali – sia a quelli sociali ed economici. Le realtà sopracitate determinano dei modelli di riferimento analizzabili. Nessuno di noi inventerà mai più l’acqua calda…

Quando il problema è di carattere gestionale-economico, probabilmente l’errore è in una lettura di questi modelli o nell’adozione di modelli esistenti “tradizionali” non integrabili in una progettazione che ha basi, obiettivi e origini completamente diverse.
(Il motivo per cui Odum riuscì a dimostrare la maggior “resa” di un ambiente naturale rispetto ad uno coltivato fu la modifica dei sistemi di analisi di “bilancio”)

Il problema è che la progettazione si gioca su linee di confine molto nebulose.
Pensiamo ai pannelli fotovoltaici: Energia pulita “verde”, una possibilità di indipendenza e resilienza energetica. Ma i costi, la resa, l’impronta ecologica in fase di produzione e la loro applicazione su quali schemi di modello si muovono? La loro applicazione progettuale ha sempre un senso? O potrei ottenere un miglior impiego “permaculturale” del mare di energia che il sole ci riversa addosso raccogliendola e conservandola in altri modi?
Un motorino di nuova generazione inquina meno di uno vecchio, ma se io prolungo la vita di quello vecchio non evito che si debba costruire un motorino nuovo?
Lo stesso discorso è applicabile a tutte le altre energie che devono entrare nel nostro sistema (soldi compresi… che pur sempre energia sono).

La permacultura nasce in Australia dove, creare dal nulla una collina o un invaso d’acqua di 1000mq è cosina da nulla in un progetto più ampio di riforestazione e biorimediazione di una proprietà che ha estensioni territoriali simili a quelli di una provincia italiana.
Ma qui, appunto, siamo in Italia e i modelli sono in scala. Ma non solo. Nell’individuazione dei modelli noi abbiamo un bagaglio storico-culturale che, se da una parte è vincolo, dall’altra può essere un’enorme risorsa.

Io vedo una serie di problemi collegati allo sviluppo e alla gestione di progetti di sostenibilità energetica*** alternativi.

Il primo è legato a forme di “abitudine mentale” collegabili a pattern disfunzionali.
Un esempio classico è, a fronte del desiderio di iniziare un’attività di tipo agricolo, tuffarsi immediatamente in uno scontro diretto con il sistema agricolo attuale coltivando cereali perché agricoltura=cereali. In realtà i bisogni e la sostenibilità agricola risiedono spesso nella riduzione della coltivazione cerealicola non nella sostituzione del sistema di coltivazione. Questo è un po’ la falsa illusione dell’agricoltura Biologica.

Il secondo è legato a forme di business “alternativo”. Il classico ragionamento del “faccio cose, vedo gente, organizzo dei corsi, chiamo i wwofers, faccio un campo di volontariato internazionale…”. Tutte attività preconfigurabili come “precariato sostenibile” su cui non si può sicuramente basare una modifica dei modelli socio-economici e la sostenibilità di un progetto. Se di sostenibilità stiamo parlando stiamo parlando anche di resilienza e di capacità di modifica al cambiamento, se per qualsiasi motivo ad un certo punto dovessero mancare i volontari o questi ci costassero un botto in pranzi e cene che fine farebbe la nostra sostenibilità? Lasciamo stare la questione corsi che con la crisi economica e la maggior parte della popolazione insediata in grandi centri urbani dovrebbe assumere caratteristiche assolutamente mirate ed accessorie.

Il terzo è legato ad una forma molto italiana di provincialismo. Vediamo e studiamo cose interessanti e di valore all’esterno e cerchiamo di replicarle qui da noi (cosa spesso valida) ma tendiamo a dimenticare la specificità delle scale e dei modelli. E’ notevole come questo succeda in maniera democraticamente trasversale tra le categorie ideologiche. Leggo Fukuoka e cerco di riprodurlo facendo finta che non esista l’inverno e che ci sia una stagione dei monsoni. Vedo i successi(?) degli OGM e cerco di introdurli in Italia senza considerare l’impatto su un’agricoltura di dimensioni medio-piccole ed un territorio assolutamente disomogeneo. L’importante è essere ideologicamente “hipe”. E questo ci porta al punto n° quattro.
Le persone che spesso agiscono questi progetti di cui anch’io faccio parte.
Siamo quasi tutti cresciuti negli anni ’80, la teoria del “contenitore” ci pervade. Creiamo vuoti da riempire, siamo compulsivi. Spesso le scelte che facciamo sono di rifiuto dei modelli esistenti ma stentiamo a crearne di nuovi cadendo spesso nell’emulazione di modelli già dismessi – come il fascino di una stolta autarchia – e, quando lo facciamo spesso tendiamo a cercare di ignorare il contesto che ci circonda o ci dissanguiamo, novelli Savonarola e Giovanne D’Arco autodafé, per combatterlo.

Buckminster Fuller sosteneva che per cambiare un modello non serve combatterlo, devi renderlo obsoleto.
Sono convinto che questa sia la chiave di lettura giusta. Ma per rendere obsoleto un modello bisogna comprenderlo a fondo e introdurre le persone al nuovo modello alternativo che deve rispondere, comunque, ai loro bisogni non solo alle loro ideologie.
La permacultura è in grado di creare modelli nuovi e migliori degli esistenti, più efficienti ed efficaci ma per farlo deve rimanere strettamente collegata ai modelli ed alle scale mettendo in rapporto le energie e le rese del territorio, selezionando quelle più resilienti e preservandole in cicli regenerativi.
I progetti vanno fatti considerando le energie del micro-territorio in cui ci si insedia. Gli ideali sono le lenti con cui analizziamo ed osserviamo la realtà, non sono la realtà. Un po’ la storia del dito e della luna…

Noi stiamo iniziando il nostro progetto.
Non sappiamo come andrà a finire o come si estenderà nel tempo (anche se i risultati negli spazi minimi ed instabili degli ultimi 6 anni sono incoraggianti). So che l’obbiettivo è dare alla nostra famiglia un’alta qualità della vita ed avvicinare il nostro ettaro di terra alla migliore approssimazione dell’Eden.
Non disponiamo di ricette salvifiche o funzionali possiamo solo dire che sono stati fondamentali diversi aspetti:
Né troppo terreno né troppo poco.
Non troppo lontano da centri abitati.
Tempi medio-lunghi per raggiungere una situazione di bilanciamento dinamico.
Semplificazione fiscale.
Capacità di produzione di beni di scambio con la rete locale.
E poi… c’è tutto l’aspetto filosofico, naturale, estetico ed etico ma, spesso, per realizzare un sogno bisogna dimenticarselo per poi riscoprirlo come sorpresa in ciò che si sta facendo.****

E, ragazzi, ricordatevi la scala ed i modelli!

Le Note a piè di pagina

* Se Tiziano Ferro fa notizia facendo coming out sulle sue preferenze di genere vorrà pur dire che l’outing si può fare anche sull’ovvio…

** Il mio laptop del 2004 ha deciso che 7 anni sono troppi e, per ora, ha l’encefalogramma piatto… sappiatelo… se avete fretta di contattarmi vi conviene chiamarmi direttamente. E perdonatemi se mi dimentico delle cose… sono nel suddetto laptop e le connessioni con posta ed internet sono seriamente ondivaghe ed incerte.

**** Sia chiaro che quando parlo di “rese”, “risorse” o “energie” ne parlo nel senso più ampio del termine (cibo, combustibili, elettricità, soldi, reti sociali…). E, per proprietà transitiva, tutto ciò che determina il nostro benessere in un sistema dotato di un bilanciamento dinamico. Mentre, per “bilanciamento dinamico” intendo una situazione in cui la sostenibilità reciproca dei vari attori è garantita dallo spostamento continuo del fulcro. Se il bilanciamento fosse determinato da vettori fissi, secondo le leggi della termodinamica, si arriverebbe ad una situazione di “morte termica”. Sembra assurdo ma capita… anche nelle relazioni tra le persone. Un esempio classico in natura è dato dalle foreste, finché sono giovani sovraproducono “energie”, allo stadio di maturità ciò che producono consumano arrivando ad uno “zero termico” che inizierà inevitabilmente un processo regressivo fino a non entrare nuovamente in una rigenerazione…

**** Anche se non sembra in questo articolo si parla di soldi ed ecologia. Economia ed ecologia hanno la stessa radice greca “oikos”, casa, ad indicare lo studio del modo in cui si gestiscono le attività della vita siano esse umane e finanziarie o vegetali, animali o biochimiche. Siamo seduti su uno sgabello le cui gambe sono tutte queste attività… non considerare una può voler dire trovarsi a gambe all’aria con una commozione celebrale durante un pranzo di gala.

13
Dic
10

De Rerum Rustica (trainspotting Catone) Puntata n°2

segue da qui

Va bene.

Abbiamo sospeso la narrazione, costellata qua e là da simpatiche carestie, emergenze umanitarie e guerre per il controllo di suoli coltivabili all’alba della Rivoluzione Industriale nelle mani di uomini che, più o meno impropriamente si sono impossessati del lavoro di Marta.

Da quel momento in poi l’energia non è più prodotta dall’agricoltura ma dai cadaveroni dei dinosauri che qui e là giacciono nel sottosuolo.

Oddio, è stata comunque una gran bella soluzione alle carestie che da quel punto in poi vengono praticamente cancellate o, con più probabilità, sostituite da problemi di distribuzione.

Ora. Voi immaginate cosa succede ad un terreno coltivato dal 7000 a.C. quindi  già con una serie di problemi di per suo, quando gli piombano addosso trattori da 240 cavalli con vomeri da 110cm, erpici, dischi…

Ma ancora meglio: provate a pensare cosa succede ad un suolo “vergine”, mai coltivato prima, non inserito in un processo “gestionale” di secoli, quando questo accade.

Foto di Dorothea Lange

Due parole: Dust Bowl.

Vi siete mai chiesti perché tutti i maggiori movimenti di preservazione del suolo, le tecniche di no-tilling e, perché no, gli ogm salvifici che richiedono meno acqua e meno lavorazioni del suolo arrivano dagli Stati Uniti e dall’Australia?

Probabilmente perché li, più che in altri posti, i danni di un’agricoltura industriale si sono presentati in tutta la loro “efficacia”. Negli States con la succitata Dust Bowl, in Australia con la desertificazione e gli sturboni sulla biodiversità (vedi conigli, rospi, pecore… con buona pace per la nostra idiosincrasia per l’ailanto…).

Quelli erano terreni “non coltivati” secondo l’accezione “classica” del termine in cui i risultati di quello che noi conosciamo come “agricoltura moderna” si sono presentati in tutta la loro devastante forza (occhio: il biologico è ascrivibile all’agricoltura moderna)

In Italia siamo un poi’ più fortunati. Il sistema non è ancora completamente collassato. La terra in pianura è poca e l’agricoltura industriale a fatto fatica a prendere piede preservando nicchie di bilanciamento tra ipersfruttamento e soluzioni tampone. Hanno quasi fatto più danni le politiche di edilizia ed i geometri. L’Italia è un paese basato sull’ufficio tecnico del comune (art. 1 della nostra costituzione se fosse scritta con un minimo di senso della realtà).

Ma i danni ci sono e si vedono. Il dissesto idrogeologico è lì a dimostrarcelo. E non sto a menarvela con il vetiver

Unico problema. Tra gli anni ’30 e gli anni ’40, durante la Dust Bowl, una sola tempesta era in grado di scaricare più di 1Kg di suolo per abitante sulla sola città di Chicago. Da noi non si sollevano e non atterrano pompose palle di polvere di terra… da noi la terra scivola lentamente sulle strade, sui paesi, sulle persone in un lento e progressivo viaggio che ha un’unica conclusione: il mare.

E’ la fortuna di essere una lunghissima lisca di terra nel mezzo di un bidet chiamato mediterraneo. Siamo praticamente un’isola ma continuiamo a considerarci “continentali”… Siamo un paese “ligure”, se qualcosa ti cade dal balcone è perso in mare. Anche se stai sulle Dolomiti.

Tra parentesi. Avete presente quando piove. Anche in pianura si formano dei piccoli rigagnoli di acqua marrone intorno al vostro orto. Il marrone è dato dalla frazione più piccola degli aggregati di argilla, la frazione “nobile”, una di quelle fondamentali per lo Scambio Cationico. Se tutto quel marroncino se ne invola giù per i canali, per i torrenti, nei fiumi fino ad andare a conoscere i parenti del fossile che avevano lì accanto finché qualcuno non ha deciso di coltivargli il mais sulla testa… beh… potete avere tutti nutrienti elencati da Liebig necessari alla crescita del vostro pomodoro ma le radici non riusciranno che ad assorbirne una minima parte… Scambio Cationico… l’azione di trasferimento tra le basi di scambio (colloidi come l’argilla sopracitata) e le radici dei nutrienti… e si fotta la botte, le doghe e tutte le altre pippe. Ciao, ciao, buone vacanze in riviera al terreno sano… possiamo solo sperare che prima o poi l’area tra Lampedusa e Tripoli sia coltivabile.

E va bene.

Abbiamo inventato l’agricoltura e l’abbiamo “tesa” fino alle estreme conseguenze trasformandola da produzione di energia a consumo di energia.

E abbiamo ancora un sacco di problemi.

Primo tra tutti la completa mancanza di un’analisi EROEI nel comparto agrario.

Che non vuol dire coltivare pannelli fotovoltaici.

E tanto meno industriarsi intorno agli OGM che sono solo la versione in camice bianco e dischi di petri della nostra simpatica Marta Stewart del neolitico.

Il problema principale è che potete vestirvi come vi pare ma siete sempre li a piantare semini e strappare erbacce due passi fuori dalla caverna anche travestendosi da tecnici del comparto agro-alimentare (bio o non bio che sia)

Vuol dire ricominciare.

E non ricominciare da mio nonno che coltivava il “broccolo appeso del val brembana” o dalle buone pratiche alla “TerraMadre”.

Vuol proprio dire reinventare l’agricoltura sotto un’altra ottica. Salvando quello che c’è di buono e gettando alle ortiche (buone in risotto o frittata) il resto, ovvero tutto ciò che non produce energia (nel termine più ampio e generale del termine energia che in primissi traduce comunque con: pappa buona a pranzo e cena). Mentre ci siamo… che ne direste di dare una drastica riduzione al consumo e alla coltivazione di cereali? (Questo per tutti i neo-rurali che si ostinano a cercare di coltivare grano, mais ecc… a cui va, comunque, tutto il mio affetto e rispetto).

Vuol dire reinventare un percorso che, pur tenendo in considerazione Marta ed i suoi simpatici figlioli (tutti maschi a parte alcune rare eccezioni come Lady Eve Balfour) scansi le false soluzioni offerte da una agricoltura “tradizionale” a marchio AIAB o dal Biotech.

Citando uno a cui sono state attribuite più frasi storiche che letti a Garibaldi: “Non si può risolvere un problema partendo dagli stessi presupposti che l’hanno creato”. A. Einstein

E quindi andiamo a cambiare i presupposti.

… o almeno… ci si prova nella prossima puntata…

05
Dic
10

Eppur si muove


Pur avendo Facebook rubato alla blogsfera le menti migliori del nostro secolo ( e per questo ne saremo sempre grati) la suddetta si muove e si dimena.
Annunciazione n° 1 – il Michele di Venezia, nonchè Presidente, oh mio Presidente di Spiazzi ha trasferito tutte le sue “casette” digitali qui http://agricultoregalleggiante.blogspot.com/.
Che è un casino quando senti il richiamo della terra e sei in laguna…
Annunciazione n°2 – Tonzer e compagni hanno fatto outing! Sono passati mesi dalla mossa genial-situazionista del seminare abusivamente pinoli in giro per il mondo… ora si passa all’azione organizzata! http://socioagricoltura.wordpress.com
Annunciazione n°3 – Nonostante la mia poderosa indole al cazzeggio ed allo spreco di tempo in modi e maniere sempre più incredibilmente inutili. Sto correndo a destra e manca e lavorando come un ossesso (per i miei standard) nonostante le temperature subglaciali, la neve e la pioggia… ma porca vacca…

03
Nov
10

Dis-appunti di progettazione


Vi hanno già detto in mille salse che il suolo è la pelle del mondo.
Che quei primi 10-15 centimetri di terra che disperatamente sorreggono il vostro peso contengono più roba di quanta se ne possa trovare a brancolare per tutti i MegaStore del mondo e che è lì che risiede la maggior percentuale dei nutrienti necessari per la crescita delle piante e lo svilupparsi della vita. E questo, solo nell’area coperta dai vostri piedi.
Ve l’hanno già detto. Così come vi hanno già abbinato l’immagine dei campi arati a quella di un vostro braccio completamente scuoiato. Aia, fa male.

I lavori per la nuova casa sono ancora fermi alla parte teorico-progettuale-burocratica ma, intanto si inizia a lavorare sui 10000 e passa metri quadri di campo.
A questo proposito, mentre siedo nel bel mezzo di un prato sotto la pioggia mi ripeto il mio personale mantra progettuale.

Lezione numero 1: la mappa non è il territorio.
E anche questo me l’hanno già detto. Guardo tutte le topografie, tutte le cartine, vado su è giù per il catasto, l’Istituto di Cartografico, saccheggio tutte le foto satellitari possibili immaginabili (che la paranoia per i satelliti che ci spiano va bene… ma vuoi mettere che comodità che lo facciano: anche il più Zerzaniano dei miei amici ha Google Earth istallato sul pc… sottolineo:PC) e poi scopro che non corrisponde quasi nulla. Che la mia lettura delle carte non corrisponde quasi in nulla con la percezione dello spazio reale. Nessuna delle due è errata ma nessuna delle due è corretta.
Le medie matematiche lasciano il tempo che trovano.

Lezione numero 2: prima di fare qualsiasi cosa analizzo a fondo le energie in transito sul territorio. Tutte: sole, vento, acqua, mandrie di bufali incazzati… che sembra una cavolata ma non considerare nessuna delle succitate energie ti porta a trovarti magari in linea diretta con un canale di venti freddi che spaccano il becco agli uccellini o con un fiume in piena che ti sradica l’orto alla prima pioggia. In più se ci si può evitare di intralciarle ma, al contrario, con una sana impostazione da Ju-Jitsu agroecologico, assecondarle per i propri fini… tutto lavoro risparmiato sul lungo termine.

Lezione numero 3: se è comodo, facile e piacevole… funziona.

Lezione numero 4: una buona progettazione è flessibile ma permanente. Lo so… questa è una di quelle frasi stronze che tendenzialmente vengono dette da vecchi portinai giapponesi a sfigatissimi ragazzini brufolosi destinati a vincere i mondiali di Kung-Fu e a catturare mosche con le bacchette per il riso. Più in specifico avrebbe a che fare con il Chaordic e con la falsa idea di “fissità” insita nel concetto di “preservazione” di una vecchia scuola di ecologia e di “crescita costante della produzione” dell’agricoltura industriale.
Agricoltura Industriale cui appartiene anche il vecchio contadino che parla solo dialetto stretto, racconta dei bei tempi andati , possiede una luce nel profondo degli occhi… no, giusto per ricordarsi che la storia del vecchio=saggio è sempre più spesso una gran cazzata… i vecchi saggi o sono persone interessanti indipendentemente dall’età, sono estinti o andrebbero estinti…

Lezione numero 5: Evita le bojate da “Into the aiuola”. Siamo in Italia. Una striscia di terra che si allunga in un bidet di acqua salmastra. Se vedete il sole sorgere dal mare, avete tempo di fare pranzo con i parenti, un riposino e vederlo tramontare nuovamente in mare dalla parte opposta del paese… la wilderness lasciala a paesi con altre scale dimensionali. Qui, o fai i conti con i vicini, o hai imparato a mangiare sassi oppure migra (abbiamo una vasta cultura nazionale a riguardo).

Lezione numero 6: 10.000 metri quadri sono tanti. Inizia dal metro 1 e progredisci. Magari scopri che manco ti servono tutti.

Lezione numero 7: ReginaZabo un giorno aveva postato (non mi ricordo più dove. Ad un certo punto aveva più account di Steve Jobs 🙂 …) una frase di Mr. Cissachicavoloera in cui si faceva notare come la nostra costituzione (“Una delle migliori al mondo, se non la migliore” cit. da qualcun’altro sopra i 70 anni) sia praticamente l’unica che si apre dichiarando che “la repubblica Italiana è fondata sul lavoro”. Chiunque altro al mondo fonda – regimi totalitari a parte – in maniera meno ipocrita le proprie basi in cose un po’ più interessanti come il benessere, la felicità, la possibilità espressiva…
Ricordatelo.

02
Apr
10

Hacking GATTACA (organismi mentalmente modificati 2)


immagine tratta da: BibleCode (a dimostrazione che ogni teoria è possibile…)

Questo rischia, nuovamente, di essere un post chilometrico. Quindi, come giustamente mi suggerisce Equipaje, cercherò di stare entro i limiti della decenza… forse.
Facciamo così… se non avete voglia di leggere potete saltare il tutto ed andare al “riassunto” alla fine…

Prima di iniziare vorrei ringraziare tutti coloro che hanno partecipato direttamente o indirettamente al post precedente sopportando gli avvitamenti e le provocazioni.
Il problema è che non sempre è sufficiente un rifiuto. Per cercare nuove strade sto provando a fare equilibrismo su un rasoio.
Pronti?
Andiamo…

Parafrasando e citando un post di Maggie Koerth-Baker, apparso su Boing-Boing, una delle Direttive Primarie di Star Trek cita: “Non ti impicciare negli affari di pianeti meno avanzati tecnologicamente del tuo”.
Per quanto possa sembrare assurdo la NASA ed i vari enti spaziali sono avanti anni luce rispetto a qualsiasi burocrazia terrestre sui protocolli da mantenere per evitare contaminazioni vicendevoli Terra vs. Resto dell’Universo.
Dal 1967 è infatti operativo l’OPP, Office of Planetary Protection (Ufficio per la Protezione Planetaria) i cui scopi principali sono quelli di studiare protocolli che evitino la propagazione nell’universo di contaminanti terrestri (pensa che fregatura viaggiare per un centinaio di anni nello spazio profondo per trovarti a studiare l’influenza suina nell’orbita di plutone…) e viceversa.
Nulla di tutto ciò è mai stato pensato ed organizzato per la Terra… dove, sicuramente c’è più vita (almeno il sabato sera) e, se rispondiamo positivamente alla domanda di Carl Sagan “Se su marte ci fosse vita ma solo in forma microbica, marte apparterrebbe ai marziani?”, la terra ci appartiene? Possiamo farne un po’ ciò che vogliamo o e solo un’enorme condominio?
Ecco, gli OGM mi stanno un po’ sul culo per questo… sono figli di una cultura che ha preso atto di aver già devastato un sacco di cose per cui tanto vale continuare ad ignorare il famoso 75% di funghi sconosciuti (e più in generale le potenzialità della biodiversità esistente) e continuare a costruire sugli errori le soluzioni per risolvere gli errori stessi. (non so perché ma questo discorso mi fa sempre venire in mente un cane che si lecca il buco del culo… tanto per dimostrare che gli avvitamenti non sono merce rara)

Ma qui, tanto per cambiare, siamo sui principi etici. Se avessimo risposto “Balle! Atomizzate i fottuti microbi e prendete Marte!”, posizione personalmente non condivisibile ma lecita (“Non sono d’accordo con le tue idee ma mi batterò perché tu le possa esprimere”… mai che Voltaire si faccia i cazzi suoi!), si sarebbe dovuti andare ai voti con risultati incerti.

Ma se c’è una cosa grandiosa nella natura è che questa è Open Source.
Come ben dice Ste di Vogliaditerra: “Qualcuno magari potrebbe pensare che il contadino produce del cibo, ma questo non è così.
Il contadino si prende cura della terra e del paesaggio, governa gli animali e si occupa degli ulivi e delle viti e se ne esce del cibo è solo un effetto collaterale anche se ben gradito”. Ciò che Ste lascia, giustamente, implicito è che ciò che fa è strettamente legato alle leggi “fisiche” e “metafisiche” (soprattutto nel caso di Ste 😉 ) della natura.
Bene… io sono più bravo sul piano fisico. Non perché non riconosca o non mi appartenga il piano metafisico, semplicemente, sarebbe complesso per me stare dietro ad entrambi.
Ciò che è incredibile e che Ste è un fine genetista e, con lui, chiunque abbia coltivato o deciso di mangiare una bacca piuttosto di un’altra negli ultimi 7000 anni determinando la sopravvivenza della prima e condannando la seconda (la data è sparata a caso… non mi fate i pignoli).
Dopo 4 anni di orto, i semi religiosamente salvati dei miei fagioli stanno intraprendendo un viaggio di adattamento genetico alle condizioni pedo-climatiche e biologiche della piana alluvionale della Dora. La signora Pina che non ama i broccoli e al Super compra solo i pomodori (anche a dicembre) unita alle altre migliaia di signore Pine sta permettendo al pomodoro costoluto di sopravvivere a discapito di qualsiasi altra pianta preservandone ed ampliandone il patrimonio genetico.
Siamo tutti dei fottuti genetisti. Siamo, volenti o nolenti, l’anello più alto (anche solo per numero e voracità) della catena alimentare, la selezione genetica fa parte del nostro bagaglio di sopravvivenza.

Ecco. Questa è la seconda cosa che mi fa incazzare degli OGM.
Non sono Open Source.
Il mercato degli OGM prende una minima porzione di natura, la vincola, la brevetta e la toglie dalla riproducibilità e modificabilità orizzontale tipica della natura stessa.
(Ma non al 100%… i casi di OGM “scappati” al controllo della Bayer ne sono una dimostrazione)
Non bastavano le leggi del mercato e della grande distribuzione a “condizionare” la nostra sovranità alimentare. Adesso la registrano e la bloccano legalmente…
La cosa era già successa con gli F1 e le qualità ibride, quindi, di per sé, non dovrebbe essere un gran problema ma le tecnologie, in quel caso, erano relativamente semplici. Un paio di libri specifici e chiunque può creare i propri F1.
Per ciò che riguarda gli OGM, no. La lavorazione è più “sottile”, le possibilità di ibridazione pressoché infinite.
Ma soprattutto è possibile ammantarli di un alone di scienza “misterica”.
Ed è qui che scattano i meccanismi più deleteri della comunicazione. La scienza degli “stregoni” crea fascinazione e/o odio. Da una parte il “zitti voi che non potete capire” dei promoter OGM, dall’altra il rifiuto totale di qualsiasi confronto perché si tratta di “aberrazione scientifica”.
In realtà è un problema di conoscenza.
Il mercato degli OGM è (scusate la ripetizione) un mercato a “tecnologia proprietaria” come i software Microsoft, come gli album di Lady Gaga. Niente di più. Solo l’ultimo arrivato in ordine di apparizione e, essendo l’ultimo arrivato e direttamente collegato alla sovranità alimentare, il più aggressivo.

Idealmente non c’è molta differenza tra la ricombinazione del DNA ed il software.
Entrambi fanno riferimento ad una sintassi e ad un’alfabeto preciso, li ricombinano in codici e ottengono un risultato.
Ma sopratutto, entrambi sono crackabili, come qualsiasi codice. (La difesa degli stessi determina spesso la “violenza” di alcune Major)
In ipotesi, così come l’industria degli audiovisivi inciampa e fatica non riuscendo a trovare soluzioni efficaci alle nuove tecnologie “hacker”, anche l’industria OGM potrebbe essere messa alle corde attraverso gli stessi sistemi. Roba impossibile da esperti genetisti dotati di macchinari avveneristici? Un po’ si… ma non troppo… come ben sostengono anche i ricercatori: “capita in continuazione anche in natura…”

Partiamo da un presupposto: il DNA non è la molecola di Dio. Non è questione di fede o filosofia. La famosa doppia elica, per quanto esclusivamente la raffigurazione di una astrazione matematica, è parte della natura (open source). E’ qualcosa di fisico, come un sasso, una foglia, la tastiera su cui sto scrivendo.
Estrarre il DNA da una fragola, da una banana o vedere ciò che determina il fatto che voi siate alti, bassi, con il naso adunco o a patata, biondi o bruni è un giochetto da ragazzi che da anni viene fatto nei laboratori scolastici alle elementari.
Ok. Ciò che ottenete è una pappetta mucillaginosa che in nulla assomiglia alle spettacolari rappresentazioni di GATTACA ma, intanto, avrete avuto la possibilità di capire che si sta parlando di materia e non di essenze astratte, di idee platoniche.
Se vedete fisicamente il DNA, magari le ombre fuori dalla grotta diventano un po’ meno paurose. E se qualcosa non fa paura, il confronto è sicuramente più efficace.

Occhio, non saltate a conclusioni affrettate: non ho nessuna intenzione di proporre l’OGM autodafé… sto cercando di scardinarne il sistema (forse perdendomici dentro).
Ma non sarà con una pappetta che si spaventerà la Monsanto o la Syngenta.
In fondo la pappetta non è il codice.

Ok. Questo è un passo un po’ più evoluto rispetto al semplice frullare una banana in acqua salata con 2 gocce di detersivo (questo in breve è il sistema per estrarre il dna… poi scriverò le istruzioni complete…) ed è ancora molto lontano dal codice ricercato.
Con 6 batterie da 9 volt, una scatoletta di plastica e del gel di Agar potete “fotografare” l’impronta “digitale” del DNA. (Poi do le istruzioni anche di questo… in ogni caso trovate tutte le informazioni su MAKE magazine vol.7 di Agosto 2006) e qui, ci stiamo andando più vicino. Quantomeno siamo in grado di riconoscere del DNA vegetale da del DNA umano e (se siete molto bravi) anche tra varie specie vegetali…

Ma ancora. Siamo solo ai giochi propedeutici per la riappropriazione di qualcosa che appartiene a tutti, non solo al Mercato OGM o ad un gruppo di ricercatori.
Si. Mi spiace. I ricercatori possono essere persone stupende quando la smettono di vedere tutti i problemi come chiodi solo perché hanno un martello in mano… ma non è un problema che riguarda solo loro… E’ che “la specializzazione è per gli insetti” non per gli uomini…
Le società che producono OGM fanno affidamento sulla tecnologia.
La tecnologia ha un pessimo difetto: diventa obsoleta e si deprezza velocemente. Macchine avveniristiche in grado di sequenziare e leggere il DNA che fino a pochi mesi fa erano inimmaginabili stanno diventando velocemente abbordabili da chiunque (il che ha sfumature inquietanti… ma anche la nitroglicerina di Nobel…). Ma non solo, i software per “giocare” ricombinando i codici a proprio piacimento sono ormai disponibili sul mercato da parecchio tempo.
Immaginate cosa potrebbe accadere se qualcuno decidesse di mettere online tutte le sequenze genetiche fin qui “tracciate”….
Non fatevi cogliere dagli incubi. Pensate a quando venne pubblicato open source il genoma della phytophthora infestant o di alcuni virus epidemici dando a milioni di ricercatori la possibilità di lavorarci sopra. Ci sono delle potenzialità, non ultima, l’ipotesi “hacker” di affondare nell’inutilità economica il businness degli OGM.
OpenWetware persegue, in parte, quest’ipotesi.

D’altro canto, salvando alcune pregevoli scoperte collegate alla sequenziazione del DNA, gli OGM di per sé, come tecnologia proprietaria non reggono. Se lo fanno è solo perché dietro ci sono politiche economiche e di interesse.
No, niente teoria del complotto rettiliana neanche sta volta.

Il DNA è una gran cosa, la possibilità di leggerlo, interpretarlo, preservarlo, sono opportunità aperte a 360° gradi. Dalla preservazione della biodiversità e delle antiche qualità di sementi alla creazione di un simpatico leone con testa ed ali da falco (che, in ogni caso, nascerebbe morto…).
Ma gli OGM non sono l’agricoltura.
Sono un prodotto. Come un TostaPane.
No. Non è vero. Quando compro un TostaPane quello mi appartiene, posso farne ciò che mi pare, il mais bt no. Lo pago ma non mi appartiene.
Gli OGM non sono l’agricoltura.
Sono un prodotto. Come l’ultimo album di Lady Gaga.

Non puoi copiarlo.
ed è opinabile dal punto di vista del gusto…

RIASSUNTO.
Studiare, modificare e creare in maniera responsabile organismi il cui dna venga ricombinato non è di per se un’eresia. Pensare che siano un prodotto commerciale spacciabile come la soluzione dei problemi del mondo è idiota come pensare che l’Hummer sia la soluzione alla mobilità urbana ed all’inquinamento.
Temo che alcuni siano rimasti delusi dalla seconda puntata 😉
Ma qua, siamo in grado di buttare in vacca anche l’immacolata concezione.

10
Mar
10

Organismi Mentalmente Modificati

Questa sarà quasi peggio di quando ho detto che le alloctone non erano “il” problema.
Potete aggiungerla alla lista delle cose allucinanti che posso elaborare insieme a “l’ailanto ha un suo di perché”.
Gli OGM sono un falso problema.
Non mi picchiatemi e cercate di prendere per un attimo le distanze dall’abituale scontro tra schieramenti. Si, lo so, è complesso ma credo che sia sano prendersi una vacanza dai limiti delle proprie convinzioni e provare ad indossare dei “panni nuovi”. Poi, magari, scopriamo che quei panni ci fanno veramente schifo e torniamo più forti e sani nelle nostre case mentali.
Ci provo e non so dove andrò a finire.
Prima di silurarmi riconoscetemi almeno il fatto di averci provato sennò qui stiamo solo a darci le pacche sulle spalle a vicenda.
Ah… e lasciate Malthus un attimo a casa con i nonni.

Dicevamo:
Gli OGM sono un falso problema.
Non ho nessuna intenzione di fare il riassunto dello sviluppo dell’agricoltura contemporanea e delle implicazioni socio economiche della stessa. Per chi volesse leggerne in maniera “leggera” posso consigliare la lettura dei 4 (!!) post di Matteo Bordone sull’argomento. Bordone è un giornalista tuttologo pop ed esperto di videogiochi. Nonostante ciò (o proprio a causa di ciò) la serie di articoli è condivisibile ed in alcune parti molto simile al materiale che si porta, con l’amico G ed Enzo, durante gli incontri divulgativi che teniamo in giro. (La cosa potrebbe sconvolgere G, particolarmente legato all’etica di Thoreau, molto meno me, legato all’etica dei Cargo Cult, quasi zero Enzo che è un biochimico felicemente inurbato nella tentacolare metropoli).
Sto divagando.

Gli OGM sono un falso problema.
Iniziamo a toglier un po’ di materia grezza dalla discussione in modo da fare un minimo di chiarezza. Gli OGM non sono la Monsanto (o la BASF, o la Syngenta, o la Bayern, o …)
La Monsanto, non sono io che ve lo devo raccontare, è un’azienda. Sta sul mercato mondiale fa quelle cose che fanno le aziende sul mercato mondiale: decide strategie di marketing, pianifica azioni commerciali, controlla i profitti, fa i bilanci e, si, finanzia la ricerca, assume e licenzia gente, sfrutta lo sfruttabile per ottenere dei profitti che ne giustifichino l’esistenza. In generale, come tutte le aziende e corporation mondiali, se le si applicasse il manuale per il riconoscimento delle patologie psichiatriche utilizzato dall’FBI risulterebbe essere un serial killer compulsivo e bipolare. Nel caso della Monsanto questo è particolarmente accentuato, almeno a stare alla classificazione etica delle imprese fatta da Covalence (Su 581 aziende Monsanto è 581°, Syngenta 574°). Non mi interessa in questo momento andare ad analizzare il perché le leggi del mercato siano così e non in un altro modo, essendo fatte dalle persone e quindi modificabili.
Allora, la Monsanto (o la BASF, o la Syngenta, o la Bayern, o …) in questo momento sono un problema. Ma non sono gli OGM. Teniamo a mente questo e andiamo avanti.

Togliamo le major di ingegneria bio-chimica. Ci rimangono gli OGM, abbandonati soli soletti in un laboratorio in cui si aggirano persone in camice bianco bravi nel fare ciò che sono bravi a fare. Il che (sempre che vengano rispettati i parametri dell’etica… ma la mia etica è diversa dalla tua e da quella della mia mamma) vuol dire approfondire le possibilità di conoscenza e di sviluppo del genere umano. Darwin era un ricercatore, Leonardo daVinci era un ricercatore, Lovelock e la Margulis sono dei ricercatori, Haber era un ricercatore (che, oltre al dispendioso sistema di produzione industriale dell’azoto, ha provveduto a creare lo Zyklon B…). Quindi, i ricercatori sono uomini, individui. Variabili non controllabili. Potremmo discutere che non va fatta la ricerca o che va fatta solo in alcuni campi ma lascio volentieri questo tipo di discussione ad alcuni piccoli stati totalitari Laziali.
Io, di per mio, non mi sento di poter cassare o salvare un ricercatore accollandomi il rischio di cancellare un daVinci o salvando un Haber… (entrambi finanziati da capitali economici privati più o meno etici sulla base di chi osserva).

Però. Però.
Quando arriva la notizia che 3 tipi di mais Bt ed una patata modificata (occhio, non dalla Monsanto americana, dalla Basf Tedesca: neanche il gusto di poter fare del sano anti-americanismo…) scoppia la guerra santa. Da una parte i gli “abbraccialberi”, dall’altra gli “squali” entrambi con una capacità di comunicazione prossima allo zero. Nel mezzo tutti gli altri tirati da una parte o dall’altra per la giacchetta.
Non amo né gli “abbraccialberi” con le loro le loro teorie del complotto, gli slogan e le mille citazioni di casi più o meno comprovati,.
(C’ho provato una volta ad abbracciare un albero, era un platano bellissimo, ma ebbi la netta sensazione che guardasse il frassino a lato con sguardo tra il panico e l’imbarazzo.)
Né gli “squali”, buffa lobby dalla retorica passivo-aggressiva che tutto hanno di scientifico (come armi retoriche) tranne dei contenuti “stabili”. Cosa si intende per contenuti “stabili”? La scienza non è una materia “fissa”. La terra si credeva piatta come la pizza ma poi risultò essere una sorta di sfera fatta male. La cocaina era un’ottima sostanza stimolante che aiutava la digestione ma poi costrinsero la coca-cola a cambiarla con la caffeina… ecc… ecc… (i ricercatori esistono anche per fare in modo che non ci si “fissi” ma si possa evolvere correggendo possibili errori). Quindi non possono in nessun modo portare verità su alcunché… ma, probabilmente anche grazie ad un’opposizione altrettanto “portatrice di verità”, possono far finta di si.
Quando messi di fronte all’impossibilità di avere previsioni a lungo termine sugli effetti degli OGM o dei correlati (l’uso di glisofati, modifiche di mercato, modifiche sociali e quant’altro) hanno due armi a disposizione: ammettere che la Vita (chiamatela Natura, Gaia, Biosfera o come diamine vi pare) non e priva di errori ma sarà in grado di affrontarli (“Le piante OGM sono studiate per rendere in agricoltura, lasciate nel selvatico non sopravviverebbero”. Se non esistono infallibilità, questa affermazione è un’ossimoro…) oppure la vecchia arma utilizzata dalla Green Economy sulla lotta alla fame nel mondo che, sinceramente, mi fa un po’ l’impressione di quando da piccolo mi dicevano di mangiare tutto “pensa ai bambini che muoiono di fame”… che sia detto chiaro e tondo: è sempre stata una gran stronzata.
Ecco, questi due tipi di persone, incastrate nel classico dualismo “mamma-papà”, “poliziotto buono-poliziotto cattivo” sono quelli che gettano veramente una brutta luce sugli OGM ed impediscono di elaborarne il concetto. (Oltre a dare degli orgasmi post-mortem a Freud)

Ora. Togli, le Major, togli la bassa comunicazione pro e contro e ti rimangono i ricercatori e gli OGM.
Attenzione: togliete anche i ricercatori che fanno comunicazione pro o contro… non sono definibili ricercatori. Che il ciabattino mi venga a dire che l’unica cosa buona per i miei piedi sono le sue ciabatte mi fa un po’ ridere. Un conto è comunicare una ricerca scientifica un conto e promuoverla (la differenza si capisce subito: la prima è una noia mortale la seconda è mortale. Punto.)
I ricercatori come abbiamo visto sono belli, brutti, buoni, cattivi, corrotti, sottopagati, strapagati come qualsiasi altra persona. E, molti, sono bravi in quello che fanno. Campi specifici. Di una specificità inconcepibile. Microsettori delle nanoscienze picometriche. Sanno benissimo che ciò che loro scoprono o trovano o inventano è un tassello, non la pietra filosofale e che questo tassello va inserito in un mosaico più ampio e poi inserito in uno ancora più ampio che è la Vita. Credo siano in pochi i Frankestein che pensano che il loro lavoro sia la Vita. Tendenzialmente quello è uno spostamento che fanno i comunicatori di cui sopra o le major. O i primi pagati dai secondi, o i secondi rinforzati dai primi o uno dei mille intrecci possibili in un triangolo a tre degno di un pornazzo d’autore (Major, abbraccialberi, squali).
Gli OGM sono uno dei campi di ricerca e di sviluppo, realtà laboratoriali che possono avere validità di studio, di analisi. Il solo rischio è quello di considerarli Soluzioni (notare la S maiuscola), come avvenne negli anni passati con la chimica agraria… dai, siamo sinceri, la Bayern cavalcò le teorie di Justus vonLiebig per decenni ma non era mica Justus il colpevole tanto meno i fosfati o l’azoto chimico. (Justus, poveretto, aveva persino provato a convertire Londra alla fitodepurazione delle acque nere… roba che te la scordi nel Lambro, letteralmente il cesso della Lombardia anche prima che lo riempissero di gasolio!).

Il problema, il problema reale, come al solito siamo noi. Incapaci di scegliere e valutare aldilà degli schieramenti. Sempre pronti a batterci contro qualcuno o qualcosa ma incapaci di concepire una complessità e di metterla in discussione. Con questo non voglio dire che non si debbano avere posizioni anche dure o estreme: se davanti hai un cretino tanto vale dargli del cretino. E’ il lasciarsi intrappolare nel gioco stupido dei comunicatori e delle Major che trovo assurdo.
Mi sto confondendo. Provo a ricapitolare con un esempio. Il Golden Rice.
Io sono convinto che Ingo Potrykus sia un po’ un Frankestein, un Frankestein buono, in buona fede. C’è un problema? La malnutrizione nei paesi del terzo mondo per carenze di pro-vitamina A? Sono un’ingegnere biochimico, lavoro sul DNA delle piante, come risolvo il problema? Modifico una pianta e gliela do. Ma non solo! Gliela do gratis e spero di prendermi il Nobel come Borlaug (questa è mia… magari lui lo fa per vero spirito filantropico). Se sono un biochimico specializzato sul DNA del riso è ovvio che quella sarà la mia risposta al problema, come quella di Borlaug fu la Green Revolution.
Quello che i comunicatori e le Major fecero e stanno facendo, e di far sparire dal discorso la complessità dei sistemi. Ci sono fior fior di progetti in Africa sulla produzione di cibi complementari che funzionano egregiamente, ma ai comunicatori non interessano. Ai “contrari” perché apparentemente hanno scelto quel ruolo e se glielo togli sono persi, ai “pro” perché da quello dipendono, almeno in parte, i loro stipendi. E poi sono esperienze di resilienza, legate ad un’impostazione diversa, alla ricerca non della “Soluzione” ma di tante piccole esperienze risolutive.
Ho l’impressione che si sia un po’ a questo punto: tutte le parti hanno davanti un malato, nominalmente: la terra, e tutti propongono UNA ricetta.
Non esiste una ricetta. Non è mai esistita e, storicamente, le ricette uniche hanno sortito effetti disastrosi.
Con questo non voglio dire che la ricerca sugli OGM non sia varia e differenziata, non voglio dire che non possa e non voglia essere “site specific”. Anzi, è potenzialmente in grado di essere estremamente legata al territorio in cui la si cala. Ma rimane, di base, una soluzione “unica”: modifica “artificiale” del materiale genetico delle piante.

Quindi. Abbiamo gli OGM, figli di una ricerca che può essere buona o cattiva, prodotti da laboratorio che possono portare a successi o fallimenti, abbiamo dei pessimi comunicatori pro e contro e un’industria che, anche grazie a questi elementi, prospera su conflitti ed incomprensioni perché, più di ogni altro elemento in gioco, risponde a delle regole precise. Le regole di mercato.
Il mercato è l’evoluzione di una forma di relazioni umane. Il mio villaggio è hai confini con un bosco ricco di selvaggina, quello dei miei vicini è su una montagna metallifera. Io gli do pellicce in cambio di strumenti per andare a caccia. Di per se non è ne immutabile ne negativo ma come tutte le relazioni può assumere aspetti disfunzionali da cui e poi complesso riuscire ad uscire.
Il problema attuale è che le regole del mercato prevedono una crescita continua. Aziende come la Monsanto credono in questa crescita continua e cercano di perseguirla con ogni mezzo necessario. Spesso consumando enormi risorse per cercare di rimanere su una linearità di sviluppo. Ovvio che da questo punto di vista, mettere le mani sulle ricerche OGM (e sui ricercatori) è un’ottima strada per cercare di rimanere su una curva ascendente. Gli OGM sono “controllabili”, non prevedono le intemperanze ed i cicli inerenti la “vita”. Quando le relazioni aumentano di complessità, seguendo pedestremente i dettami di Cartesio, l’istinto ci porta a semplificare.

E forse il problema è questo. Gli OGM sono un campo di studio e di ricerca, non un prodotto. Io posso criticare un prodotto ma non posso criticare una ricerca (un po’ perché non ne ho gli strumenti, un po’ perché non ha molto senso).
Quello che succede nel dibattito sugli OGM, invece, è proprio questo: confondere in continuazione i livelli prodotto-ricerca e a farlo sono quasi sempre le due fazioni supportate in questo da chi i prodotti li commercializza (se sei abbastanza bravo a gestire il marketing non esiste pubblicità positiva o negativa, esiste solo il piazzamento del prodotto nell’immaginario collettivo).
Ma, in un Mondo in cui dobbiamo ancora decifrare l’esistenza del 75% dei funghi, in cui in un cucchiaino di terreno c’è più biodiversità che nell’intera regione Piemonte, c’è realmente bisogno di un prodotto OGM? Non credo. Molte delle soluzioni che il marketing OGM dice di poter di risolvere esistono già in natura ma in una forma che il mercato non è attualmente in grado di gestire. Non è fabbricando soluzioni di mercato o appellandosi a vaghe energie naturali che la situazione può migliorare.

La natura non lavora per linee produttive, lavora per correlazioni di sistemi complessi. Questo è il suo modo di garantire resilienza e stabilità (cose che il mercato attuale non è assolutamente in grado di garantire). Studiando, applicando e mimando i sistemi naturali in maniera precisa e scientifica (va bene Gaia… ma magari se ci mettessimo meno slancio animista ed un po’ più di pratica…) a tutti i livelli, comunicando non solo una “diversità”, un’opposizione primitivista di ritorno ed un “sentire” generico, ma praticando a tutti i livelli, dall’orto al campo di mais, lavorando localmente ed in maniera diffusa forse il problema degli OGM come “prodotto” da conflitto potrebbe essere quantomeno mitigato permettendo di valutarne realmente le caratteristiche prima che un qualsiasi giornalista vestito da scienziato possa convincere la signora Pia che i lor prodotti sono l’unica soluzione e che noi siamo “i soliti fricchettoni”, prima che l’unica fonte alimentare naturale sia un prodotto di nicchia offerto da Carlo Petrini, prima di continuare a risolvere i sintomi invece dei problemi.

Gli OGM non sono “il Male”.
Ma, aldilà dell’ambito della ricerca, sono solo l’ennesima soluzione per posticipare un problema. La loro commercializzazione e promozione è il perseguimento di una linearità problema-soluzione-prodotto che semplicemente non è più sostenibile.
Il sistema che abbiamo creato semplicemente non è più sostenibile, capita… le civiltà nascono, crescono, si espandono, collassano… un po’ come tutto in natura. La differenza la fa la nostra capacità di resilienza al cambiamento, a come ci prepariamo per affrontarlo. Copiare dalla natura vuol dire imparare da chi la resilienza la pratica dall’alba dei tempi, nessun prodotto umano per quanto interessante e potenzialmente in grado di spingere più avanti il livello delle nostre conoscenza sarà mai in grado di garantire alcunchè.

Sono stato un po’ prolisso e confuso, scusate, cercavo di mettere in ordine e sperimentare un po’ di pensieri caotici…

21
Gen
10

It’s all about food, baby!

DISCLAIMER: Questo post è stato scritto da “lui”, uno dei miei fratelli gemelli segreti che tengo nell’armadio. Ringrazio anche madame per la sua opera di doppelgänger-sitter 😉

Ti siedi a tavola. Piatto, forchetta, coltello, il bicchiere già pieno di birra o vino o, se come me sei nel cono d’ombra dell’intolleranza all’alcol, acqua. Il pane, un paio di grissini.
Si mangia. Finito di mangiare si ripongono i piatti nel lavello o nella lavastoviglie e via! Pronto per un altro giro di danza. Passa qualche ora e sei di nuovo li con la bocca piena.
Vai a dormire, ti svegli. Bocca piena.
Evidentemente, come tutte quelle azioni che svolgiamo in maniera ripetitiva, il mangiare è diventato un riflesso incondizionato, non fosse che lascia i piatti sporchi e spesso si deve cucinare. Ma d’altronde, anche il risultato finale della nostra attività alimentare richiede un certo decoro ed una certa igiene.
Ora. Noi facciamo finta di non saperlo. Siamo in grado di comprendere solo fino ad un certo punto la complessità dei sistemi: ho li riduciamo chiudendoli nelle alte sponde della Scienza (una a caso) o tendiamo a farne un mischione buttandola in campo teologico (filosofico se siete atei). Se stai nel mezzo, fai chiacchiere da bar.
E che chiacchiere da bar siano! Da buon ex-barman o visto nascere cose grandiose davanti ad un bancone.
Dicevamo: “facciamo finta di non saperlo” perché in realtà, scandalizzarsi per i fatti di Rosarno, può essere limitante nel paese che ha fatto del pomodoro il suo emblema nel mondo. Il pomodoro. Il pomodoro è costato la vita a centinaia di migliaia di Indios e costa, tutt’ora, la vita a centinaia di migliaia di persone costrette tutti gli anni a raccoglierne quintali su quintali al suono del mantra del precario “fin qui tutto bene”. Ma cosa vuoi, non mangiare la pasta di Gragnano© con il pomodoro di S. Marzano? Sarebbe stupido.
Ho deciso: mi coltivo i pomodori, così ho sulla coscienza solo gli Indios che tanto è andato in prescrizione e Colombo m’è sempre stato un po’ sul culo. Già, bravo, e la pasta? Cosa faccio, faccio finta di non saper che arriva dalle coltivazioni igegnerate da Norman Borlaug? Coltivazioni che richiedono quintali di concimazioni e migliaia di litri d’acqua?
Gli OGM, mi dicono, possono essere una soluzione. Grandi concentrazioni di nutrienti e vitamine in quantità inferiori di alimenti, nessun problema o quasi di parassiti, poche necessità di concimazioni, volendo anche un uso minore di combustibili fossili. Si, gli OGM. Però non è che diano tutta questa affidabilità. In molti casi hanno fallito miseramente e poi non è prevedibile l’effetto che possono avere in generale sia sulla biologia umana che sulla biosfera. Poi, tra qualche anno, scopro che sono un “pacco” come la Green Revolution e mi rimane di nuovo il boccone di traverso. No, niente OGM. E cosa mangio allora…
McCandless. Mi trasferisco a vivere sul “lato selvatico” e inizio a brucare tutta la verdura che trovo in giro, se proprio sono messo male magari posso anche provare a cacciare una mini lepre o a pescare un pesce, anche se non credo che ne sarei realmente in grado. Ma poi, a me piace la pasta con il pomodoro. Mi piace la cioccolata con l’olio di palma che sta devastando la foresta del Borneo. No. Alla cioccolata posso rinunciare. Si, va bene, ma a me sta venendo di nuovo fame. Cerco una mediazione: compro solo prodotti certificati. Bio. Equo. Eco. Demeter. Stavo giusto pensando di accettare quel posto al distributore di benzina, a quel punto avrei i soldi per fare la spesa… ma poi, chi controlla il controllore?

Non mi stupisco che vi siano così tanti disturbi alimentari.
Mangiare è un lavoro incoerentemente di merda. Un po’ come vivere.

10
Nov
09

Cronaca “Vera”

CronacaVera

Il 15 ottobre il nostro eroe, il paladino del produzione e del consumo alimentare sano e sostenibile, Michael Pollan deve andare per una lezione al Cal Poly.
Immediatamente scatta la rappresaglia: uno dei maggiori sponsor dell’istituto minaccia di ritirare la prevista donazione di 500.000 $ se la lezione non verrà bloccata o trasformata in un faccia a faccia.
Il seguito è un casino, lettere, minacce, scuse, senatori inalberati, paventati licenziamenti, e collezioni di articoli vari.
Ora.
Il Problema non è Pollan che, per quanto ottimo giornalista, oratore e godibilissimo scrittore rimane pur sempre un po’ un “fighetto” da upper class americana (e poi, sia detto, “Il dilemma dell’onnivoro” letto dall’Italia lascia un po’ perplessi… e vagamente orgogliosi dell’essere la repubblica delle banane che siamo).
Tanto meno lo sono i magnati delle major alimentari americane o i “rudi” contadini della corn-belt, dallo sputazzo di tabacco pronto, il cui appezzamento più piccolo equivale circa alla superficie dell’area metropolitana di Milano.
Il problema non è la Cargill o Joel Salatin (oddio, no, il problema è anche quello…).
Il problema è… ve lo vedete un casino del genere per Carlo Petrini?

Ok. Mi si potrà dire che le situazioni non sono paragonabili (così come non lo è il sistema alimentare presentato ne “Il dilemma dell’onnivoro” con quello italiano, almeno non completamente).
Mi si potrà dire che qui abbiamo un’altra cultura dell’alimentazione ed un altro mercato agro-alimentare (qualcuno mi spiega perché alla Coop. Di Chivasso, oggi 9 novembre, le melanzane costavano meno dei broccoli?). Che da noi le nicchie di qualità sono preservate e mantenute, c’è un riconoscimento del prodotto di qualità e dell’eccellenza italiana e quindi Petrini non può essere visto come “antagonista” del sistema agrario-imprenditoriale ma come coadiutore, come “sponsor” del sistema naturale e sano.

Ok.
No, in definitiva il problema è… com’è che, in America, quelli sono argomenti di discussione, di scontro e di confronto a cielo aperto e da noi no?
Ok… da noi non c’è questo problema… noi, il carciofo rosso di S. Erasmo l’abbiamo messo sotto la tutela di Slow Food. Ora non corre più rischi, anzi probabilmente l’intera isola di S. Erasmo (e l’inquinamento di Margherera sedimentato nelle sue sabbie) verrà completamente colonizzato di carciofi rossi…
Quindi perché dovrebbero esserci movimenti di opinione con personaggi che promuovano un modo “diverso” di produrre alimenti, politiche agrarie più consapevoli? C’è già tutto e, sorpresa, è già anche un mercato consolidato!
Ma non solo, grazie al lavoro che stiamo facendo sulla qualità e l’eccellenza (ci piace un sacco questo termine… ormai, nelle langhe, quando Piero incontra Giulio sul trattore si inchinano esclamando “eccellenza!”) il sistema lo stiamo esportando in tutta Europa!
Sicuri?

Beh…
Per la prima volta i paesi membri della Comunità Europea hanno dovuto rendere pubblici i beneficiari delle sovvenzioni EU all’agricoltura. Un terzo non va neanche a finire ad aziende strettamente agricole.
Ci sono milioni che vengono spesi in ditte che hanno vagamente a che fare con l’agricoltura e che, soprattutto, supportano tutto tranne un sistema di produzione agro-alimentare sostenibile (in cui possiamo anche ascrivere il benedetto carciofo di S. Erasmo… ma non obbligatoriamente, per la teoria del “che crepi il panda!” e della migrazione delle specie vegetali).
Tra i più fortunati beneficiari dei fondi Europei per l’agricoltura possiamo annoverare alcuni simpatici conglomerati affaristici tra cui il colosso dei pollifici francese Groupe Doux e buona parte degli zuccherifici europei. Né i primi, tanto meno i secondi hanno nulla a che fare con l’agricoltura… semplicemente preparano dei semilavorati e li commercializzano grazie ad una fitta rete di sussudiarie e di appalti… ma tant’è che incassano i fondi per l’agricoltura. Per capire bene come funziona il meccanismo l’esempio degli orsetti di gomma e delle girelle di Liquirizia della Haribò è emblematico.
La Haribò ha preso 332.000 € di sussidi per coprire la differenza di costo dello zucchero europeo da quello del resto del mondo. Se la Haribò avesse comprato lo zucchero, chessò, del venezuela l’avrebbe pagato meno di quello Europeo quindi l’Europa deve rifondergli i “danni” (che, io, sciocco, pensavo avessero già caricato sul prezzo dei loro pezzetti di gomma colorati… che sciocco…). Ha un senso!
Così come hanno un senso i 148.000€ dati alla ditta di catering Ligabue di Venezia nel 2008 (Michele sei avvertito!) come sussidi all’esportazione di zuccheri e prodotti caseari a bordo di lussuose navi da crociera, l’unico caso in cui invece dei container sono state usate comode confezioni monodose.

Che bisogno abbiamo in Europa di qualcuno che dica che le sovvenzioni all’agricoltura fanno più danni che altro al sistema di produzione agro-alimentare? Che bisogno abbiamo di riconoscere l’agricoltura come produzione di puro e semplice cibo quando tanto abbiamo un “Mercato” per il lumpenproletariat ed il carciofo rosso di S. Erasmo per i fini conoscitori del “terroir”?
Che bisogno c’è di fare delle discussioni serie sul sistema alimentare europeo quando sono ormai anni che non si produce più cibo ma utility finanziarie?

DISCLAIMER . Non ho assolutamente nulla contro il carciofo rosso di S. Erasmo ma è il primo presidio slow food che mi viene in mente per colpa di Michele… prendetevela con lui 😀

In ogni caso… io faccio il tifo per loro:
genuino

13
Set
09

Una Fattoria per il futuro parte 1 di 6

Per voi che c’avete una bella connessione solida è potete godervi i documetari della BBC sanamente sottotitolati in italiano …
(Grazie Anna per la segnalazione e Dario per il supporto alla sottotitolazione)

Le altre 5 puntate le trovate qui




L’ orto di carta

Diario di bordo ad aggiornamento casuale e saltuario di un cialtrone nell'orto... giocando con il fango, la permacultura, l'agricoltura sinergica in compagnia di William Cobbett, John Seymour, Fukuoka e Kropotkin.

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Troverò altri sistemi di finanziamento occulto…

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